martedì 28 febbraio 2023

Esempio di giornalismo italico


Se questo è l'esempio di come i giornalisti danno le notizie in Italia forse è davvero il caso di smettere di leggere i giornali ed informarsi da altre parti. 

La cosa bella è che si propone la questione dicendo assolutamente una cosa vera: la media dei telespettatori della seria A su DAZN è stata nelle ultime 5 giornate di circa 6 milioni (addirittura 7 in una); ma la notizia corretta da dare è assolutamente un altra. Chi non approfondisce o non capisce i grafici viene assolutamente fuorviato.

Il problema è che una questione relativa a numeriche raccontata in termini assoluti non vuol dire assolutamente nulla, mi spiego meglio. 

Se nelle 5 giornate precedenti gli ascolti medi erano di 10 milioni siamo di fronte ad un tracollo, se erano di 4 milioni siamo di fronte ad un notevole aumento. Il dato numerico di per se, comunicato così da solo, senza altri riferimenti ed in valore assoluto non dice assolutamente nulla.

Da fenomeni quali sono a suffragio della loro tesi presentano un grafico che dice tutt'altro. Il grafico dice che il trend è palesemente in calo! 

Se in una azienda le vendite mensili avessero questo trend, il boss probabilmente vorrebbe la testa del responsabile commerciale su un vassoio.

Altro esempio: il calo degli spettatori in cinque giornate è stato di 1.341.626 che detto così potrebbe anche non voler dire un granché. Se prima erano 100 mln un calo di 1,3 milioni non mi pesa più di tanto.

Ma se ma stessa notizia la comunichiamo così: il calo degli spettatori in 5 giornate è stato del 19,27%, la cosa cambia notevolmente.

In questo momento in DAZN, Sky e compagnia non stanno passando dei bei momenti...

Questi sotto sono i signori giornalisti di cui sto parlando, e sotto ancora ho messo anche le foto dei "cinguettii" nel caso vengano cancellati.

Il fatto che siamo entrambi napoletani è puramente una casuale coincidenza...








 

lunedì 27 febbraio 2023

...a proposito di Tebas


 Ju29ro, a proposito di Tebas

"Agnelli vorrebbe ingannarci, come ha ingannato gli azionisti e i tifosi della Juventus con i suoi falsi in bilancio."
Venghino, siori, venghino! (Javier Tebas MEDRANO)

Cosa c'è dietro gli attacchi di Tebas ad Agnelli?
Secondo El Espanol le ragioni dell'acredine di Tebas verso Agnelli sarebbero da cercarsi nella reazione che Andrea oppose all'entrata in Lega Calcio di un fondo di investimento che avrebbe voluto Tebas alla guida del calcio italiano, con conseguente ricchissimo stipendio.
Qui sotto il reportage di Jorge Calabres su El Espanol e la traduzione in italiano da parte nostra.
SPOILER: e buon derby della Mole! (non in TV, mi raccomando)
Il fallito sbarco di CVC in Italia e i 30M che Tebas non ha ottenuto: la storia dietro l'attacco ad Agnelli
Il fondo ha negoziato per entrare nel Calcio Italiano con un investimento di 1.700 milioni di euro e lo avrebbe accompagnato l'attuale presidente della Liga con un cospicuo bonus
(Jorge Calabrés)
Javier Tebas, presidente de LaLiga, ha attaccato Andrea Agnelli dopo le sue dimissioni da capo della Juventus a causa dell'indagine della Procura di Torino sui conti della società bianconera. Il rapporto tra i due si è rotto molto prima della Superlega, nel febbraio 2021, quando l'italiano si è posizionato contro il fondo di investimento CVC, partner di Tebas ora in Spagna, che voleva entrare nella Serie A.
Il presidente della Liga ha dichiarato nel suo account Twitter personale che Agnelli ha passato anni "a manipolare bilanci, valutazioni, documenti, per ingannare le autorità pubbliche, sport, azionisti, tifosi...". Inoltre, ha aggiunto che l'ex presidente della Juventus vuole "ingannare il mondo del calcio con la bontà della Superlega".
Tebas ha definito le dimissioni di Agnelli "una grande notizia". Tuttavia, il motivo nascosto di questi attacchi del presidente della Liga è da cercarsi nel tesissimo contenzioso che i due hanno avuto tra la fine del 2020 e l'inizio del 2021. L'amministratore delegato della Juventus ha infatti impedito a CVC e Tebas di approdare in Serie A.
Il fondo di investimento ha fatto un'offerta da 1.700 milioni di euro per una formula quasi identica a quella che poi ha firmato con LaLiga. Questa cifra doveva andare ai club italiani per il 10% dei diritti televisivi dei prossimi 50 anni. Tuttavia, il piano di CVC era anche quello di nominare Javier Tebas presidente della Serie A, secondo fonti di vari club italiani a El Espanol.
Queste stesse fonti assicurano anche che l'arrivo di Tebas nel calcio italiano sarebbe stato accompagnato da uno stipendio importante e da un bonus alla firma di 30 milioni di euro. Vale a dire quasi 10 volte lo stipendio che guadagna attualmente il presidente della Liga e che nell'ultima stagione è stato di 3,37 milioni di euro, secondo i numeri pubblicati da La Liga.
Il grande sostenitore di Tebas e CVC in Italia è stato Urbano Cairo, proprietario del Torino e presidente di RCS MediaGroup. La Juventus di Andrea Agnelli si è però opposta con veemenza a questa operazione, che avrebbe "ipotecato" il futuro dei club. La società bianconera ha avuto anche l'Inter come grande alleata e, alla fine, ha vinto il voto nell'assemblea di Serie A poiché il progetto non è riuscito a ottenere il sostegno di almeno 14 club.
La Serie A ha quindi bocciato il CVC e con esso è finita la possibilità che la Tebas finisse nel calcio italiano su proposta del fondo.
Già nel 2018 l'attuale presidente della Liga sosteneva di avere un'offerta dal Calcio italiano, situazione di cui approfittò per farsi alzare lo stipendio. Da quando è diventato presidente de La Liga nel 2013, il suo stipendio si è quasi decuplicato, visto che gli emolumenti che percepiva per il suo ruolo allora erano di 348.000
Tuttavia, tutte le fonti calcistiche italiane consultate da El Espanol smentiscono che nel 2018 ci sia stata una proposta decisa dalla Serie A a Javier Tebas e assicurano che l'unica volta in cui Tebas è stato vicino a finire nel calcio italiano è stato tramite CVC e la proposta di Urbano Cairo.
Ora, a quasi due anni dalla reazione di polso di Agnelli, Tebas si è preso la sua personale rivincita con alcune dichiarazioni nei confronti dell'ex presidente della Juventus.
Il capo della Liga aveva anche accusato la società bianconera nell'aprile di quest'anno per non aver rispettato il fair play finanziario della UEFA ed è sempre stato molto critico nei confronti della sua figura.


sabato 25 febbraio 2023

La Juve, le plusvalenze incrociate e la «foglia di fico» del par. 45 dello IAS 38

La Juve, le plusvalenze incrociate e la «foglia di fico» del par. 45 dello IAS 38

di Fabrizio Bava
L'autore è docente di Economia aziendale al dipartimento di Management dell’università di Torino


«Bilanci truccati, … non poteva iscriversi alla serie A nel 2005-'06». «Nelle ultime sessioni di mercato …, tra le altre, hanno venduto alcuni giovani della Primavera per aggiustare i propri bilanci. Potrebbero rischiare qualcosa?».


Sono alcuni estratti di articoli pubblicati su siti web, il primo nel 2007 (nomi delle squadre citate intenzionalmente omessi). Il tema plusvalenze è «chiacchierato» da decenni e non si tratta di una leva a cui ha fatto ricorso la sola Juventus, recentemente condannata nel processo sportivo. 


È quindi inevitabile porsi una domanda: perché non sono state definite preventivamente delle regole di condotta chiare così da poter poi, successivamente, controllare e punire severamente chi non le rispetta?


Oggi è comprensibile che non solo molti tifosi della Juventus, ma anche chi possiede il dono dell'onestà intellettuale, possano essere indotti a pensare che si stia attuando la politica del capro espiatorio.


I precedenti giurisprudenziali evidenziando che tali comportamenti non sono quasi mai stati puniti, non tanto perché i valori dei calciatori incrociati non fossero stati gonfiati, quanto piuttosto per la difficoltà di dimostrarlo (non esistendo qualcosa di simile a un valore di mercato, soprattutto per i calciatori più giovani).


Arriviamo al punto.

Chi segue l'inchiesta starà pensando: «E no, per la Juventus è diverso, perché essendo quotata avrebbe dovuto applicare il par. 45 dello IAS 38 e non iscrivere la plusvalenza!».


Ma questa è solo una foglia di fico. La Sentenza sportiva condanna la Juventus per avere dissimulato la natura permutativa delle operazioni incrociate al fine di evitare il rischio di non poter iscrivere la plusvalenza.

«Dovrebbe valere anche per i bilanci OIC, le società non quotate»

Ho già sottolineato una serie di perplessità.


Si può punire per tale ragione, nonostante la Juventus abbia dichiarato di non avere mai applicato in passato (e pertanto mai dichiarato nei bilanci pubblici) tale policy contabile?


Nonostante tale trattamento contabile sembrerebbe essere applicato da pochissime società di calcio in Europa (la Consob afferma almeno due)?

Nonostante nessun organo di controllo del mondo del calcio e non, interno e esterno, ne abbia mai contestato la mancata applicazione alle tre (ora due) società quotate?

Ma, soprattutto, si può punire una società per la mancata applicazione di una policy contabile che, se ritenuta la regola da applicare (c'è spazio per dibattere anche sulla correttezza della sua applicazione agli scambi di calciatori), riguarderebbe, con ogni probabilità, tutte le squadre di calcio?


A mio parere, se si sposa la qualificazione delle operazioni incrociate come permute, ciò dovrebbe valere anche per i bilanci OIC, cioè per tutte le società di calcio, non soltanto per quelle quotate.

Perché nelle raccomandazioni contabili della FIGC, con riferimento ai bilanci OIC, non è stato indicato che le operazioni incrociate sono permute che devono essere trattate, ricorrendo all'analogia, in base a quanto previsto dall'OIC 16 per le immobilizzazioni materiali?


A differenza degli IAS/IFRS, infatti, la permuta non è disciplinata nell'ambito delle immobilizzazioni immateriali, ma lo è nell'ambito di quelle materiali.


Questi sono tecnicismi per addetti ai lavori, ma qual è l'aspetto sostanziale, il ragionamento dirimente?


Tutte le operazioni incrociate, in modo particolare di giovani calciatori, presentano – da sempre – un elevato rischio di iscrizione di plusvalenze per aggiustare i bilanci.


E non si è fatto ancora nulla per cercare di porvi rimedio. 


Seconda questione.


Nella Delibera 22482/2022 la Consob afferma che la Juventus non dispone di una procedura per la stima del valore dei calciatori che possa "guidare" le operazioni di mercato su binari prestabiliti ed evitare (rendere più difficile) la possibilità di utilizzare strumentalmente la soggettività intrinseca della valutazione dei calciatori per porre in essere politiche di bilancio.


«Gli organi competenti disciplinino regole contabili chiare»

Gli organi competenti si sono chiesti se le altre società di serie A dispongono di tali procedure? L'hanno mai verificato?


Se vogliamo che le squadre di calcio si comportino in modo corretto, è necessario che gli organi competenti disciplinino regole contabili chiare e richiedano l'implementazione di procedure che rafforzino il sistema di controllo interno aziendale.


Non sarebbe certamente la soluzione di tutti i mali, qualcuno potrebbe riuscire a trovare il modo di aggirare le nuove regole, ma le soluzioni perfette non esistono.


E poi, soprattutto, chi non rispetterà le regole (che però per essere violate devono prima di tutto esistere) potrà e dovrà essere sanzionato.


Sarebbe un bel segnale del mondo del calcio e, soprattutto, toglierebbe ai tifosi della Juventus quella spiacevole sensazione di sentirsi il capro espiatorio di un "sistema calcio" che non vuole cambiare, ma che in compenso sembra godere di una masochistica soddisfazione nel distruggere il principale asset del calcio italiano.

domenica 19 febbraio 2023

Il Martini è morto, viva il Martini

È stato il drink simbolo del Novecento, amato dalle star, protagonista di libri e film: ora lo si ordina sempre meno, ma per i cultori il suo mito resta intatto.

di Federico Platania 

Nel 1956, un giovane turista statunitense entrò all’Harry’s Bar di Venezia e fu colpito dalla maestria con cui i barman dell’epoca miscelavano Martini per gli avventori. Quel ragazzo era Edmund Lowell, oggi docente di cultura classica alla Rutgers University. Ma tra gli appassionati di cocktail Lowell è ricordato soprattutto per essere l’autore di Martini, Straight Up, fra i tanti testi dedicati a questo drink forse quello più storicamente accurato, che nell’edizione italiana ormai introvabile vanta una prefazione firmata da Umberto Eco. Nel 1990 Lowell prese a insegnare come professore a contratto alla Ca’ Foscari. Tornò all’Harry’s Bar e volle rivivere l’emozione di farsi servire quel Martini. Fu raggelato – è il caso di dirlo – quando vide il barman estrarre dal congelatore una bottiglia con un Martini preparato in precedenza che poi venne versato in un bicchiere da shot ricoperto di ghiaccio del freezer. «E me lo fecero pagare l’equivalente di 8 dollari dell’epoca», chiosa Lowell.


Che l’inizio della decadenza del Martini cocktail coincida proprio con questa disavventura raccontata da Lowell? Oggi infatti il Martini è sempre meno ordinato nei locali di tutto il mondo. Negli Stati Uniti in particolare, dove il cocktail si è affermato come icona, sono ormai il Long Island Ice Tea e il Moscow Mule a dominare le classifiche. In Italia, lo spritz – complice anche l’enorme investimento mediatico fatto dalla Campari – è il nuovo simbolo dell’aperitivo, soprattutto nelle fasce più giovani. Il Martini cocktail è una cosa seria. Robert Simonson, giornalista del New York Times, lo definisce «la bistecca al sangue del bere americano». Nell’introduzione al suo The Martini Cocktail, Simonson ricorda quella volta in cui chiese a suo padre perché bevesse solo Martini e nient’altro che Martini. «Ha un sapore unico», fu la risposta. «Il primo sorso ti dà proprio una scossa. Ti costringe a prestargli attenzione.» Questa è invece l’epoca delle serie tv viste mentre si chatta su Whatsapp. Non stupisce che a un cocktail che “ti costringe a prestargli attenzione” venga preferita l’immediatezza di uno spritz o di un gin tonic, sorseggiati distrattamente mentre si fa scorrere il dito su TikTok. Il Martini, invece, non tollera il multitasking. Quando bevi un Martini, bevi un Martini. Perché il Martini è semplice, ma non è facile.

Nel farlo, più della bravura conta la conoscenza delle trappole disseminate lungo il percorso della preparazione: esagerare con il vermouth, non freddare la coppetta prima di versarlo, mescolarlo troppo a lungo oppure – orrore! – shakerarlo, per colpa di quella nefasta battuta di James Bond il quale – fin dal romanzo Diamonds are forever del 1956 – quando ordinava un Martini specificava «Shaken, not stirred» (agitato, non mescolato) ottenendo l’unico effetto di farsi servire un cocktail torbido. Non parliamo poi dell’equivoco generato dall’omonimia tra il cocktail e il vermouth. Entrambi si chiamano Martini e questo può creare confusione e imbarazzanti errori di ordinazione quando si ha a che fare con avventori o barman con poca esperienza nel mondo dei drink. Il Martini sta dunque diventando un cocktail di nicchia e i suoi estimatori, inevitabilmente, si sentono parte di un club esclusivo. Nella bolla dei bevitori di questo cocktail ci si tramandano aneddoti, citazioni e trucchi del mestiere. Per far capire quanto poco vermouth serve per preparare un perfetto Martini cocktail viene spesso citata una battuta di Hemingway: «Verso il gin fissando intensamente una bottiglia di vermouth. È più che sufficiente.» Salvo scoprire che questa battuta viene attribuita anche a Churchill. Il mondo del Martini cocktail, in fondo, è questa cosa qui. Una teocrazia in cui tutti sono convinti di possedere la verità. Le dosi, la temperatura, la guarnizione. Guerre di secessione tra il fronte dell’oliva e quello della scorza di limone.


Per Bernard DeVoto sia oliva che scorza sono di troppo. Al pari di Lowell, DeVoto era uno studioso di storia, ma anche nel suo caso gli amanti del bere lo ricordano, più che per i suoi saggi, per un opuscolo uscito nel 1948 e dedicato ai cocktail, The Hour. In questo affilato pamphlet, DeVoto mette in guardia contro tutto ciò che minaccia le sane e giuste abitudini del bere. «Un Martini è fatto di gin e vermouth. Lo ripeto: un Martini è fatto di gin e vermouth», scrive nel capitolo dall’esplicito titolo “Per ribelli e sprovveduti”. «Ogni sottocultura crea le sue mitologie», sostiene Stefano Gallerani, scrittore e appassionato di storia dei cocktail. Il suo account Instagram, @bustofredon, è un magnifico campionario fotografico di drink di ogni tipo. «È vero però che solo gli amanti del Martini riescono a essere così pedanti.» Una pedanteria che rinforza l’aura mitica di questo cocktail, ma dal punto di vista pratico non ha una vera ragion d’essere. «Il bere miscelato è come il jazz. Esistono degli standard, ma ognuno poi ci improvvisa sopra.» E sul gin Gallerani si fa pochi scrupoli. «Tutta questa ossessione per le botaniche. Conosco gente che si distilla il gin con erbe coltivate a casa. Ne varrà la pena? Alla fine il gin è il punk dei superalcolici. Un punk elegante, come Vivienne Westwood, ma pur sempre punk». Quanto al rischio che il Martini finisca nel dimenticatoio Gallerani rassicura: «È un long seller. Si berrà sempre.»

Secondo Carolina Cutolo è la fama, non certo la grandezza del Martini a essere in declino. Cutolo ha curato per l’editore Nutrimenti Martini Eden, antologia di racconti di scrittori italiani dedicati al celebre cocktail. «Non penso che scomparirà mai – dichiara – come non scompariranno mai il fascino di Cary Grant o la grazia di Ingrid Bergman. Il Martini è un classico. Ci sarà sempre qualcuno che viaggiando nel passato in cerca di tesori se ne innamorerà come fosse la prima volta. La cultura del bere, come la cultura in generale, è fatta di classici intramontabili che sembra siano sempre esistiti, di novità mainstream destinate a un rapido oblio, di obbrobri pacchiani dalla fama incredibilmente longeva e di avanguardie incomprese che si trasformeranno in grandi classici, quindi forse la vera domanda che dovremmo porci è: qual è oggi il nuovo cocktail Martini?». Che la cultura del Martini venga offuscata dalle nuove mode del bere è comunque un rischio che corrono più i consumatori che i barman. «Chi lavora dietro un bancone è addestrato a riconoscere da uno sguardo che tipo di avventore ha davanti – racconta Cutolo, che si è formata all’Aibes (Associazione italiana barman e sostenitori) e ha lavorato per dieci anni come bartender – chi ordina un Martini cocktail spesso è proprio alla ricerca di un segnale di complicità e ammirazione da parte del barman».

Forse per il Martini cocktail vale lo stesso discorso che per l’alta fedeltà. Solo gli audiofili dicono di riuscire a cogliere le differenti sfumature di suono tra un impianto hi-fi e l’altro. Così, solo un bevitore esperto può riuscire davvero ad apprezzare le diversità di gusto tra vari mix. Su questo Lucio Tucci non ha dubbi: «Il Martini è un cocktail per intenditori». Tucci è l’autore di un libro pubblicato da Hoepli, L’ora dell’Americano, dedicato a un altro cocktail storico. Il suo account Instagram, @drinksmixworld, offre una meravigliosa rassegna di immagini vintage dedicate al mondo del bere. «Per esperienza posso dire che è vero – racconta Tucci – il Martini ormai viene ordinato molto raramente. I cambiamenti nell’offerta dei cocktail hanno portato inevitabilmente a dei cambiamenti nel gusto dei consumatori: nuovi drink, nuovi prodotti, nuove mode. Senza parlare poi del fatto che per apprezzare pienamente la qualità di un Martini cocktail serve un palato con una certa esperienza.»

Ma da dove arriva il Martini cocktail? La leggenda vuole che nel 1860 un viaggiatore senza nome entrò all’Occidental Hotel di San Francisco e chiese al barman di preparargli qualcosa che non avesse ancora bevuto nessuno. «Dove sei diretto?», gli chiese quello. «A Martinez.», fu la risposta. Il barman rifletté qualche secondo, poi miscelò gin e vermouth con ghiaccio e li versò in una coppetta. «Eccoti servito, straniero.» E Martini fu. È una storia così spudoratamente falsa che è difficile non volerle un po’ di bene. E poi si trova in qualunque libro dedicato al bere miscelato, in un’infinità di varianti, tante quanti sono i vangeli apocrifi che raccontano la vita di Gesù. A dispetto della fumosità delle sue origini, il Martini ha a che fare più con la storia che con la leggenda. Soprattutto negli Stati Uniti, dove per decenni è stato il cocktail per antonomasia fino al recente appannamento della sua fama, il Martini è stato un’antenna che ha recepito e diffuso i cambiamenti di costume. A partire dalla nascita registrata alla fine dell’800, fino al picco della sua gloria negli anni ‘60, il Martini è diventato via via più secco. La formula del drink morbido delle origini, con la sua prevalenza di note amabili e setose portate dai vermouth italiani e dal curaçao, si cristallizzò in una limpida miscela di austera glacialità. Non era solo una questione di gusto, ma di posizionamento. Il successo del Martini stava proprio nell’essere complesso nella sua semplicità.

È stato il cocktail delle celebrità. Oltre a Hemingway e Churchill, nel novero degli estimatori famosi ci sono Alfred Hitchcock, Mae West, William Somerset Maugham. Il trentaduesimo presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, viaggiava sempre con un kit per il Martini. Su YouTube c’è un video del regista Luis Buñuel che si miscela un Martini cocktail. A giudicare dalle immagini sa quel che sta facendo. All’epoca del suo massimo splendore, il Martini cocktail era una silenziosa presenza in tante pellicole di quel periodo. Su tutte, vale la pena ricordare una scena di un classico di Hollywood: Il padre della sposa di Vincente Minnelli. Anno di grazia 1950, Spencer Tracy e Elizabeth Taylor all’apice della loro fama. È la scena in cui il personaggio interpretato da Spencer Tracy e sua moglie vanno a trovare i futuri consuoceri. Per spezzare la tensione, il padre dello sposo serve un Madera invecchiato. Dopo alcuni imbarazzati scambi di battute, Tracy confessa che era molto agitato all’idea di quell’incontro e per calmarsi, prima di uscire, si era fatto tre Martini. «Le piace il Martini?», chiede il consuocero, eccitato all’idea di aver trovato un nuovo compagno di bevute. «Ma allora cosa stiamo qui a perdere tempo!». E pronunciate queste parole scorta un incuriosito Spencer Tracy in un’altra zona del soggiorno dove, con eleganza, dischiude un mobiletto bar facendo apparire tutto l’occorrente per miscelare un perfetto Martini. Ecco, quella era un’epoca in cui perfino un Madera invecchiato, tenuto in serbo per le occasioni speciali, non era che una “perdita di tempo” rispetto al re dei cocktail.


giovedì 9 febbraio 2023

Nick Cave & The Bad Seeds - No More Shall We Part (full album)

venerdì 3 febbraio 2023

#Motivazioni - (pensieri Juventini)




Ne leggerete di ogni, su queste motivazioni. Saranno sbandierate dai nostri odiatori come la prova fumante dei delitti juventini, e sono sicuro che di questa sentenza non leggeranno neppure un rigo. Gli bastano i titoli. Dimostrando per l’ennesima volta ignoranza e superficialità.
Proprio per questo, togliendo tempo prezioso alla mia vita personale, appena uscite me le sono lette pagina per pagina. E quello che vi scrivo non ve lo scrivo come tifoso juventino, vedo che in tantissimi stanno scrivendo, ma come giurista. Sfrondando, quindi, il mio parere da tutto ciò che può essere dettato dalla soggettività del tifo.
Ovviamente cerco di mantenere un tono semplice, non mi perderò nei legalismi e nel linguaggio tecnico (spesso volutamente oscuro, come tutti i linguaggi tecnici, per mantenere potere alla casta che conosce quel linguaggio ed escludere chi non ne fa parte: cosa di cui prima o poi parleremo).
La Juventus viene punita perché, secondo i giudici, delle plusvalenze ha fatto un sistema. La stessa sentenza dice che non vi è nessuna norma che vieta le plusvalenze, anche perché non c’è alcun termine di riferimento. Non c’è, per dirla con linguaggio afferente i lavori pubblici, un prezzario di riferimento. Non ci sono parametri che consentono di fondare la valutazione di un giocatore.
È ciò che persino questa sentenza ammette. E non potrebbe fare altrimenti. Però, e qui sta tutta la sua discutibilità, punisce la Juve perché ha fatto troppe plusvalenze. Con la consapevolezza di farle.
C’è parecchio che non torna.
Orientiamoci.
Dividiamo, allora, le riflessioni in quattro paragrafi:
1) Cosa sono da considerare plusvalenze?
2) Che tipo di consapevolezza c’era nel praticarle.
3) Dove è la prova dell’illecito
4) Congruità pena
1. Plusvalenze e violazione ne bis in idem
La sentenza insiste nel dire, come fa a pag. 24, che “Un metodo vi deve essere. E deve essere razionale, verificabile e ovviamente non discrezionale”. Ma questo metodo per individuare il valore di un calciatore non c’è.
Alla fine, è proprio questa sentenza a essere irrazionale, non verificata e discrezionale, quasi arbitraria.
Questa sentenza, a riprova di ciò, dimostra infatti tutta una sofferenza latente nel non riuscire a colpire la Juve come si vorrebbe. Perché è palese l’impostazione inquisitoria (e poi vedremo meglio perché, parlando di prove e di tempi), è palese la volontà di colpire la Juve ma, anche se agli occhi meno esperti non sembrerà tale, è altrettanto palese che non ha la c.d. pistola fumante.
Questa sentenza, infatti, è un infinito e sofferto andirivieni dalla considerazione che le plusvalenze non sono vietate alla considerazione che la Juve però ne ha fatte troppe, un eterno ritorno tra la considerazione che non ci sono prezzari di riferimento ma che tuttavia la Juve le valutazioni le ha fatte tutte esorbitandole.
La sofferenza della motivazione - che si palesa soprattutto nei passaggi logici che non sono tali, perché mancano elementi per renderli tali – sta tutta nel non avere davanti una norma e un prezzario di riferimento violati: se ci fossero stati, immaginiamo quale sarebbe stata la penalizzazione, forse addirittura un ordine di sterminio!
Battuta amata a parte, capite da voi come sia esorbitante e ictu oculi abnorme la pena data a una società, in assenza di una norma violata e in assenza di un parametro preciso di riferimento: 15 punti sono veramente tantissimi. Se ci fosse stata una norma, cosa sarebbe successo? Da qui, l’evidente disparità di giudizio con casi di norme violate, in alcuni casi addirittura senza alcuna sanzione (falsificazione di passaporti, tanto per fare un esempio).
Altra sofferenza che dimostra la motivazione è il dimostrare che non si è violato affatto il divieto di ne bis in idem perché “sono emerse nuove prove”.
Ma non è affatto così: la sentenza di qualche mese fa dice le stesse cose sulle plusvalenze, e cioè che non sono punibili finchè non c’è una norma di riferimento e un metodo preciso per valutare i giocatori. Quella sentenza non diceva che le plusvalenze erano belle, tanto che invitava il legislatore ad intervenire per regolarle. Il fatto nuovo avrebbe quindi dovuto essere l’emanazione di una legge con efficacia retroattiva.
Invece la sentenza attuale individua nel fatto nuovo tutta la marea di intercettazioni che ha prelevato dalla procura di Torino. Che dimostrerebbe una coscienza, da parte dei dirigenti juventini, di fare qualcosa di illecito.
E qui veniamo al punto 2.
2) Consapevolezza dell’illiceità
Nel leggere le intercettazioni, ovviamente decontestualizzate, e senza alcun interrogatorio verso chi parlava nelle intercettazioni, il giudice Figc dunque vede una consapevolezza dell’illiceità di quanto si andava facendo, attribuendo un valore confessorio.
Ora, sarà pure l’ordinamento sportivo separato da quello generale, ma la separatezza non implica potere di discostarsi dai principi generali, che sono principi del diritto, sia codificati che non codificati, che si sono maturati in millenni di storia e di riflessioni.
Non può certo essere un Chinè o un Torsello qualsiasi a cambiare, a loro piacimento, il significato del termine “confessione”.
Vedere nel contenuto di una intercettazione una confessione è una cosa gravissima.
Chiarisco questo punto, che a mio parere è fondamentale (e dimostra una carenza fortissima di cultura giuridica nei protagonisti di questo scarabocchio chiamato sentenza).
L’intercettazione è un mezzo per arrivare alla prova. Non è, in se, una prova. La prova è quel che emerge in giudizio. Se in una intercettazione, faccio un esempio, si parla di un omicidio, l’omicidio non è provato a carico di un imputato. Sarà provato quando si troveranno, ad esempio, l’arma del delitto e le impronte digitali del colpevole su quell’arma. L’intercettazione può servire per arrivare ad individuare l’assassino, ma non è prova dell’assassinio e del fatto che sia stato commesso da Tizio anziché Caio.
Infatti, è sempre in uso la tradizionale differenza tra intercettazione, che è un mezzo di ricerca della prova, e prova vera e propria.
Ora, i nostri poco avveduti giudici hanno scambiato l’intercettazione per una confessione.
La prima è un mezzo di ricerca della prova e la si utilizza con determinate finalità e con determinate modalità (sulle quali, altra cosa gravissima, la sentenza dice che non importa se siano state violate: roba da dittatura!). La seconda si ottiene in giudizio: la confessione, infatti, è una testimonianza contro se stessi.
Ora, a questa fase, semmai si arriverà, non si è ancora arrivati nel giudizio penale dove sono state prelevate queste intercettazioni. Addirittura, non si è tenuta neppure l’udienza preliminare.
Paratici non è ancora stato sentito da nessuno. Nessuno gli ha chiesto spiegazioni, nessun Pm lo ha messo alle corde, nessun avvocato lo ha controinterrogato. Niente di tutto questo. Non c’è nessun interrogatorio, e tanto meno una testimonianza confessionale.
Ma ai giudici della Figc non è importato nulla, perché hanno pensato bene di scambiare per prova quello che è un mezzo di ricerca della prova. E di vedere in ciò che viene detto in una intercettazione addirittura una confessione della consapevolezza dell’illiceità del proprio comportamento.
Che poi, per essere consapevoli di una illiceità, occorrerebbe anche conoscere la norma che si va a violare: norma che, invece, non esiste, come i nostri giudici sanno.
Gravissimo.
Non mi pento, anzi confermo, di aver parlato, appena emanato il dispositivo, di sentenza nata in una clima non solo di morte della cultura del diritto, ma con un approccio da stato dittatoriale: sei colpevole perché sei colpevole!
Il diritto piange, a leggere queste motivazioni, e soprattutto queste confusioni, fatte da persone che dovrebbero essere esperte di diritto!
Questo fa il paio con l’incredibile pochezza di tempo affidato alla difesa e l’altrettanto incredibile pochezza di tempo con cui si è deciso.
La decisione è stata basata su oltre 14mila pagine provenienti dai fascicoli della Procura. La difesa ha avuto una mezzoretta per difendersi. E i giudici hanno deciso in poco più di due ore. Le motivazioni sono state scritte poi, ma la decisione è stata presa in due ore.
Evidente che una tale sproporzione sarà sancita dalla CEDU (Corte Europea dei Diritti Umani), come già avvenuto in Farsopoli con soddisfazione di Luciano Moggi (e cosa aspetti la Juve per ricorrervi ancora non si sa).
Ecco perché parlo di clima inquisitorio, da caccia alle streghe, anzi all’unica strega.
Perché tutta questa fretta? Perché non aspettare almeno un rinvio alla sede penale? Perché non attendere almeno le risultanze dell’udienza preliminare? Perché non attendere la fine del campionato, come sarebbe doveroso fare?
Ma poi, di cosa parliamo? Di quali operazioni di mercato? Siamo così sicuri che siano state provate queste plusvalenze? E qui, veniamo al terzo punto
3) La prova delle plusvalenze
La prova secondo la sentenza è una e una sola: il famoso “libro nero di Fabio Paratici”. Che è stato preso a Cherubini, il quale lo teneva con se come arma di ricatto per poter contrattare con lo stesso Paratici un rinnovo del suo stesso contratto.
Si tratta di una serie di appunti, scritti dallo stesso Paratici, e da Cherubini, spesso a penna. Insomma, quegli appunti, a cui noi pure spesso ricorriamo, dove, molto schematicamente, buttiamo giù le fasi di una operazione, le procedure di un qualcosa. Un promemoria. Di quelli dove scrivo X perché non so bene ancora quale nome scrivere (ad esempio, “se vendo X alla soma 100 …”). Ebbene, i nostri giudici hanno visto in quell’X la prova dell’illecito e della plusvalenza sistematica: Paratici vendeva dando un valore predeterminato senza sapere neppure che giocatore andava a vendere.
Ma non gli è venuto in mente che quella X era messa lì perché non era ancora sicuro quale giocatore dovesse vendere, e quindi come semplice ipotesi? Cosa c’è di male a prefigurare la vendita di un giocatore X alla somma Y, e poi andare a vedere chi possa essere l’X da vendere? Questa sarebbe la prova della plusvalenza elevata a sistema?
Faccio un esempio.
Io devo fare entrare nel mio bilancio familiare 300 euro. Metto su un foglio ipotesi varie di vendita di cose: e allora scriverò la somma 150, la somma 50 e la somma 100. Siccome ancora non so cosa posso o voglio vendere, accanto a questa somma ci metto X. Poi, analizzata bene la situazione, vedo che 150 mi vale uno stock di abiti usati, 50 la chitarrina che mio figlio non usa più, e 100 la traduzione che ho scritto per un mio cliente.
Nessuno fa mai così?
Del resto, vi ricordate i famosi appunti di Paratici sul calcio mercato da fare, con i nomi su cui trattare? Era sua abitudine ricorrere ai foglietti, a schizzi. Abitudine sbagliata. Forse persino inopportuna. Ma non certo da ritenere prova di una plusvalenza e della consapevolezza dell’illiceità di quanto si andava facendo.
Del resto, questi giudici hanno ritenuto prove intercettazioni del genere. Ve le trascrivo, perché possiate capire di cosa stiamo parlando:
“Perché io voglio dire non è che Paratici si svegliava la mattina e diceva: oggi voglio fare una bella plusvalenza! È che a un certo punto, facevate due conti, lo chiamavate e gli dicevate: devi fare 100, devi fare 150, devi fare 70! E lui poi ve le faceva! E ringrazia che le faceva, perché così avete mascherato i problemi per 3 anni, eh! Ho detto, dico perché poi quello ha fatto, non è che...”. Ed ancora Fabio Paratici: “Eh! No, per 6 o 7, però va bene... magari 3, magari 3, magari 3”.
Telefonate decontestualizzate, frasi smozzicate, non si sa bene dette per quali finalità. Dalle quali si capisce poco. E che al massimo possono costituire una base per un interrogatorio. Non certo per un giudizio. Che infatti non si può non definire sommario.
Per non parlare del fatto di citare alcune correzioni a penna fatte su fatture di società con cui si trattava.
I giudici sembrerebbero quasi voler far credere che le fatture siano state falsificate a penna (cosa ridicola, in epoca di fattura elettronica). In realtà, quelle erano correzioni che la Juve chiedeva alla società interlocutrice perché alcuni trasferimenti dovevano essere intesi come operazioni singole, e non come scambi. Ma se così la Juve li aveva intesi, e li considerava, perché dovevano per forza essere considerate permute, visto che da tali operazioni sarebbero nati oneri maggiori? Se la legge mi da la possibilità di trattare una operazione come singola e non come scambio io ricorro a questa possibilità. Come fanno, infatti, tutti.
Forse è sbagliato, forse è da correggere la legge, forse è da integrare o riscrivere da capo, ma finché c’è questa possibilità, giusto utilizzarla.
La cosa vale per tutti, tranne che per la Juve ovviamente. Che viene punita perché all’Olimpique Marsiglia ha rimandato una fattura con una nota scritta a penna, dove chiedeva di correggere un errore.
Quella sarebbe, per i nostri giudici, una falsificazione e una prova dell’illiceità di quanto si andava facendo.
Gli illustri giuristi che hanno contribuito alla formazione dei principi giuridici si rivoltano nella tomba, nel vedere questo scempio fatto di una arbitrarietà ributtante e odiosa.
Che, in punto di determinazione della pena, esprime tutta la sua forza disgustosa.
4) Congruità della pena
Già questa sentenza è dubbia perché ne segue una su cui si era formata la definitività di un giudicato. E la smentisce del tutto, facendo passare per fatti nuovi quel che invece non lo sono, e perché il quadro normativo è sempre lo stesso. Già è dubbio considerare fatti nuovi intercettazioni provenienti da un processo che ancora non è arrivato neppure alla fase dell’udienza preliminare. E in cui non c’è stato alcun interrogatorio e nessuna spiegazione, convincente o meno che sia, di certi comportamenti e di certe frasi intercettate.
Già si stanno utilizzando come prove quelli che sono invece mezzi di ricerca delle prove. Già non si sa bene prove di cosa, visto che il ricorso alle plusvalenze non è disciplinato dalla legge, tanto che non c’è alcun prezzario di riferimento.
Già tale ricorso viene praticato, come le stesse operazioni della Juve confermano, da molte altre società. Prima tra tutte il Napoli, che ha potuto acquistare Oshimen, che sta contribuendo a fargli vincere il campionato, valutando un giocatore che ora gioca in serie D addirittura 7 milioni di euro.
Mentre le operazioni sotto osservazioni fatte dalla Juve riguardano giocatori del settore giovanile o della serie C. Non certo quelli che ci hanno fatto vincere i campionati, strapagati. E infatti uno dei momenti più penosi della sentenza è quando si cerca di far passare la valutazione dello scambio Pjanic-Arthur per plusvalenza indebita: e un giudice sportivo cosa ne sa del valore di tali due giocatori? Dove starebbe scritto che Arthur vale 10, 30, 50, 100 milioni?
Ma poi, sapete benissimo cosa ci ha fatto vincere Arthur. Un bel nulla, a differenza di Oshimen nel Napoli. Il quale non è toccato, come da tradizione degli stati dittatoriali, dove, anche a costo di inventare e precostruire le prove, tocchi solo chi pare a te, mentre per gli altri, che te la fanno sotto al naso, c’è un totale via libera.
Dunque, stiamo parlando di scambi e di operazioni minori, che non hanno portato in prima squadra campioni, e che hanno inciso sul bilancio, ammesso che siano plusvalenze indebite, circa il 4 per cento.
Insomma già ci sono tutte queste perplessità, e i giudici cosa fanno, in punto di penalizzazione? Addirittura quasi raddoppiano l’iniziale, pur assurda e spropositata, richiesta del Procuratore.
Senza alcuna motivazione. Parlando semplicemente di “inevitabile alterazione del risultato”. Ma non basta dirla, occorre provarla. E questo un giurista dovrebbe saperlo, che, anche in punto di sanzione, deve ragionare a seconda di quanto può provare.
Anche ammesso che si voglia punire la Juve per violazione dei principi di lealtà (art. 4 Cds), la punizione deve essere proporzionata alla gravità del fatto e alla sua incisività. Qui non si sa neppure se il fatto sussiste come violazione, perché non si sa bene cosa sia stato violato. E a maggior ragione non si è in grado di capire quanto, da queste operazioni, la Juve abbia tratto in termini di vantaggio. E un giudice, anziché ragionare prudentemente, colpisce addirittura con 15 punti, mentre agli altri soggetti coinvolti non da neppure una piccola ammenda?
Una delle cose che insegnano nelle aule di giurisprudenza è che un giudice, e tra questi anche i procuratori, sono tenuti ad una oggettività tale da allontanare qualsiasi sospetto che le loro decisioni siano prese contro un nemico.
Qui i giudici hanno colpito, con mal celato imbarazzo in punto di motivazione e di decisione, un nemico.
Questo non è diritto, questo non è stato democratico, questa non è giustizia.
È un’altra cosa, che a me, che studio e applico da una vita concetti millenari, fa schifo. E mi fa pena, umana e professionale, chi, pur ricco di incarichi e di titoli, ragiona nel modo in cui ha ragionato in questo caso. Senza una stella polare giuridica, senza prudenza, scambiando concetti elementari, con una approssimazione inaccettabile.
Il giudice deve anche saper convincere, infatti. La sua è una arte: motivare in modo che la sua decisione venga sentita, da tutti, come giusta.
Qui non c’è alcuno sforzo in tal senso, perché non ci sono proprio le basi.
Questa decisione, tranne che agli odiatori della Juve, viene percepita come un esercizio di vendetta, di rancore, una esecuzione, neppure tanto raffinata, che nulla ha a che fare con quello che, come è stato insegnato a me, è stato insegnato a tutti, compresi i giudici di questo abominio.
È per questi motivi che ora la società dovrà difendersi con vigore. E noi tifosi siamo lì, a controllarla, perché non compia i gravi errori dell’altra volta.
A maggior ragione, dobbiamo continuare la nostra formidabile reazione in punto di disdetta degli abbonamenti televisivi.
Non mi faccio illusioni. Qui l’aria è percepibile: vogliono la Juve in B. Dal Coni non mi aspetto nulla di buono.
Ma almeno non gli si renda la vita facile.
Quanto a Paratici e alla sua superficialità, ne parleremo. Non ne esce affatto bene, e sono sempre più convinto della sua inadeguatezza al ruolo.
Ma una cosa è la superficialità, altra cosa la criminalità.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante 2 persone e persone in piedi
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