Ne leggerete di ogni, su queste motivazioni. Saranno sbandierate dai nostri odiatori come la prova fumante dei delitti juventini, e sono sicuro che di questa sentenza non leggeranno neppure un rigo. Gli bastano i titoli. Dimostrando per l’ennesima volta ignoranza e superficialità. Proprio per questo, togliendo tempo prezioso alla mia vita personale, appena uscite me le sono lette pagina per pagina. E quello che vi scrivo non ve lo scrivo come tifoso juventino, vedo che in tantissimi stanno scrivendo, ma come giurista. Sfrondando, quindi, il mio parere da tutto ciò che può essere dettato dalla soggettività del tifo.
Ovviamente cerco di mantenere un tono semplice, non mi perderò nei legalismi e nel linguaggio tecnico (spesso volutamente oscuro, come tutti i linguaggi tecnici, per mantenere potere alla casta che conosce quel linguaggio ed escludere chi non ne fa parte: cosa di cui prima o poi parleremo).
La Juventus viene punita perché, secondo i giudici, delle plusvalenze ha fatto un sistema. La stessa sentenza dice che non vi è nessuna norma che vieta le plusvalenze, anche perché non c’è alcun termine di riferimento. Non c’è, per dirla con linguaggio afferente i lavori pubblici, un prezzario di riferimento. Non ci sono parametri che consentono di fondare la valutazione di un giocatore.
È ciò che persino questa sentenza ammette. E non potrebbe fare altrimenti. Però, e qui sta tutta la sua discutibilità, punisce la Juve perché ha fatto troppe plusvalenze. Con la consapevolezza di farle.
C’è parecchio che non torna.
Orientiamoci.
Dividiamo, allora, le riflessioni in quattro paragrafi:
1) Cosa sono da considerare plusvalenze?
2) Che tipo di consapevolezza c’era nel praticarle.
3) Dove è la prova dell’illecito
4) Congruità pena
1. Plusvalenze e violazione ne bis in idem
La sentenza insiste nel dire, come fa a pag. 24, che “Un metodo vi deve essere. E deve essere razionale, verificabile e ovviamente non discrezionale”. Ma questo metodo per individuare il valore di un calciatore non c’è.
Alla fine, è proprio questa sentenza a essere irrazionale, non verificata e discrezionale, quasi arbitraria.
Questa sentenza, a riprova di ciò, dimostra infatti tutta una sofferenza latente nel non riuscire a colpire la Juve come si vorrebbe. Perché è palese l’impostazione inquisitoria (e poi vedremo meglio perché, parlando di prove e di tempi), è palese la volontà di colpire la Juve ma, anche se agli occhi meno esperti non sembrerà tale, è altrettanto palese che non ha la c.d. pistola fumante.
Questa sentenza, infatti, è un infinito e sofferto andirivieni dalla considerazione che le plusvalenze non sono vietate alla considerazione che la Juve però ne ha fatte troppe, un eterno ritorno tra la considerazione che non ci sono prezzari di riferimento ma che tuttavia la Juve le valutazioni le ha fatte tutte esorbitandole.
La sofferenza della motivazione - che si palesa soprattutto nei passaggi logici che non sono tali, perché mancano elementi per renderli tali – sta tutta nel non avere davanti una norma e un prezzario di riferimento violati: se ci fossero stati, immaginiamo quale sarebbe stata la penalizzazione, forse addirittura un ordine di sterminio!
Battuta amata a parte, capite da voi come sia esorbitante e ictu oculi abnorme la pena data a una società, in assenza di una norma violata e in assenza di un parametro preciso di riferimento: 15 punti sono veramente tantissimi. Se ci fosse stata una norma, cosa sarebbe successo? Da qui, l’evidente disparità di giudizio con casi di norme violate, in alcuni casi addirittura senza alcuna sanzione (falsificazione di passaporti, tanto per fare un esempio).
Altra sofferenza che dimostra la motivazione è il dimostrare che non si è violato affatto il divieto di ne bis in idem perché “sono emerse nuove prove”.
Ma non è affatto così: la sentenza di qualche mese fa dice le stesse cose sulle plusvalenze, e cioè che non sono punibili finchè non c’è una norma di riferimento e un metodo preciso per valutare i giocatori. Quella sentenza non diceva che le plusvalenze erano belle, tanto che invitava il legislatore ad intervenire per regolarle. Il fatto nuovo avrebbe quindi dovuto essere l’emanazione di una legge con efficacia retroattiva.
Invece la sentenza attuale individua nel fatto nuovo tutta la marea di intercettazioni che ha prelevato dalla procura di Torino. Che dimostrerebbe una coscienza, da parte dei dirigenti juventini, di fare qualcosa di illecito.
E qui veniamo al punto 2.
2) Consapevolezza dell’illiceità
Nel leggere le intercettazioni, ovviamente decontestualizzate, e senza alcun interrogatorio verso chi parlava nelle intercettazioni, il giudice Figc dunque vede una consapevolezza dell’illiceità di quanto si andava facendo, attribuendo un valore confessorio.
Ora, sarà pure l’ordinamento sportivo separato da quello generale, ma la separatezza non implica potere di discostarsi dai principi generali, che sono principi del diritto, sia codificati che non codificati, che si sono maturati in millenni di storia e di riflessioni.
Non può certo essere un Chinè o un Torsello qualsiasi a cambiare, a loro piacimento, il significato del termine “confessione”.
Vedere nel contenuto di una intercettazione una confessione è una cosa gravissima.
Chiarisco questo punto, che a mio parere è fondamentale (e dimostra una carenza fortissima di cultura giuridica nei protagonisti di questo scarabocchio chiamato sentenza).
L’intercettazione è un mezzo per arrivare alla prova. Non è, in se, una prova. La prova è quel che emerge in giudizio. Se in una intercettazione, faccio un esempio, si parla di un omicidio, l’omicidio non è provato a carico di un imputato. Sarà provato quando si troveranno, ad esempio, l’arma del delitto e le impronte digitali del colpevole su quell’arma. L’intercettazione può servire per arrivare ad individuare l’assassino, ma non è prova dell’assassinio e del fatto che sia stato commesso da Tizio anziché Caio.
Infatti, è sempre in uso la tradizionale differenza tra intercettazione, che è un mezzo di ricerca della prova, e prova vera e propria.
Ora, i nostri poco avveduti giudici hanno scambiato l’intercettazione per una confessione.
La prima è un mezzo di ricerca della prova e la si utilizza con determinate finalità e con determinate modalità (sulle quali, altra cosa gravissima, la sentenza dice che non importa se siano state violate: roba da dittatura!). La seconda si ottiene in giudizio: la confessione, infatti, è una testimonianza contro se stessi.
Ora, a questa fase, semmai si arriverà, non si è ancora arrivati nel giudizio penale dove sono state prelevate queste intercettazioni. Addirittura, non si è tenuta neppure l’udienza preliminare.
Paratici non è ancora stato sentito da nessuno. Nessuno gli ha chiesto spiegazioni, nessun Pm lo ha messo alle corde, nessun avvocato lo ha controinterrogato. Niente di tutto questo. Non c’è nessun interrogatorio, e tanto meno una testimonianza confessionale.
Ma ai giudici della Figc non è importato nulla, perché hanno pensato bene di scambiare per prova quello che è un mezzo di ricerca della prova. E di vedere in ciò che viene detto in una intercettazione addirittura una confessione della consapevolezza dell’illiceità del proprio comportamento.
Che poi, per essere consapevoli di una illiceità, occorrerebbe anche conoscere la norma che si va a violare: norma che, invece, non esiste, come i nostri giudici sanno.
Gravissimo.
Non mi pento, anzi confermo, di aver parlato, appena emanato il dispositivo, di sentenza nata in una clima non solo di morte della cultura del diritto, ma con un approccio da stato dittatoriale: sei colpevole perché sei colpevole!
Il diritto piange, a leggere queste motivazioni, e soprattutto queste confusioni, fatte da persone che dovrebbero essere esperte di diritto!
Questo fa il paio con l’incredibile pochezza di tempo affidato alla difesa e l’altrettanto incredibile pochezza di tempo con cui si è deciso.
La decisione è stata basata su oltre 14mila pagine provenienti dai fascicoli della Procura. La difesa ha avuto una mezzoretta per difendersi. E i giudici hanno deciso in poco più di due ore. Le motivazioni sono state scritte poi, ma la decisione è stata presa in due ore.
Evidente che una tale sproporzione sarà sancita dalla CEDU (Corte Europea dei Diritti Umani), come già avvenuto in Farsopoli con soddisfazione di Luciano Moggi (e cosa aspetti la Juve per ricorrervi ancora non si sa).
Ecco perché parlo di clima inquisitorio, da caccia alle streghe, anzi all’unica strega.
Perché tutta questa fretta? Perché non aspettare almeno un rinvio alla sede penale? Perché non attendere almeno le risultanze dell’udienza preliminare? Perché non attendere la fine del campionato, come sarebbe doveroso fare?
Ma poi, di cosa parliamo? Di quali operazioni di mercato? Siamo così sicuri che siano state provate queste plusvalenze? E qui, veniamo al terzo punto
3) La prova delle plusvalenze
La prova secondo la sentenza è una e una sola: il famoso “libro nero di Fabio Paratici”. Che è stato preso a Cherubini, il quale lo teneva con se come arma di ricatto per poter contrattare con lo stesso Paratici un rinnovo del suo stesso contratto.
Si tratta di una serie di appunti, scritti dallo stesso Paratici, e da Cherubini, spesso a penna. Insomma, quegli appunti, a cui noi pure spesso ricorriamo, dove, molto schematicamente, buttiamo giù le fasi di una operazione, le procedure di un qualcosa. Un promemoria. Di quelli dove scrivo X perché non so bene ancora quale nome scrivere (ad esempio, “se vendo X alla soma 100 …”). Ebbene, i nostri giudici hanno visto in quell’X la prova dell’illecito e della plusvalenza sistematica: Paratici vendeva dando un valore predeterminato senza sapere neppure che giocatore andava a vendere.
Ma non gli è venuto in mente che quella X era messa lì perché non era ancora sicuro quale giocatore dovesse vendere, e quindi come semplice ipotesi? Cosa c’è di male a prefigurare la vendita di un giocatore X alla somma Y, e poi andare a vedere chi possa essere l’X da vendere? Questa sarebbe la prova della plusvalenza elevata a sistema?
Faccio un esempio.
Io devo fare entrare nel mio bilancio familiare 300 euro. Metto su un foglio ipotesi varie di vendita di cose: e allora scriverò la somma 150, la somma 50 e la somma 100. Siccome ancora non so cosa posso o voglio vendere, accanto a questa somma ci metto X. Poi, analizzata bene la situazione, vedo che 150 mi vale uno stock di abiti usati, 50 la chitarrina che mio figlio non usa più, e 100 la traduzione che ho scritto per un mio cliente.
Nessuno fa mai così?
Del resto, vi ricordate i famosi appunti di Paratici sul calcio mercato da fare, con i nomi su cui trattare? Era sua abitudine ricorrere ai foglietti, a schizzi. Abitudine sbagliata. Forse persino inopportuna. Ma non certo da ritenere prova di una plusvalenza e della consapevolezza dell’illiceità di quanto si andava facendo.
Del resto, questi giudici hanno ritenuto prove intercettazioni del genere. Ve le trascrivo, perché possiate capire di cosa stiamo parlando:
“Perché io voglio dire non è che Paratici si svegliava la mattina e diceva: oggi voglio fare una bella plusvalenza! È che a un certo punto, facevate due conti, lo chiamavate e gli dicevate: devi fare 100, devi fare 150, devi fare 70! E lui poi ve le faceva! E ringrazia che le faceva, perché così avete mascherato i problemi per 3 anni, eh! Ho detto, dico perché poi quello ha fatto, non è che...”. Ed ancora Fabio Paratici: “Eh! No, per 6 o 7, però va bene... magari 3, magari 3, magari 3”.
Telefonate decontestualizzate, frasi smozzicate, non si sa bene dette per quali finalità. Dalle quali si capisce poco. E che al massimo possono costituire una base per un interrogatorio. Non certo per un giudizio. Che infatti non si può non definire sommario.
Per non parlare del fatto di citare alcune correzioni a penna fatte su fatture di società con cui si trattava.
I giudici sembrerebbero quasi voler far credere che le fatture siano state falsificate a penna (cosa ridicola, in epoca di fattura elettronica). In realtà, quelle erano correzioni che la Juve chiedeva alla società interlocutrice perché alcuni trasferimenti dovevano essere intesi come operazioni singole, e non come scambi. Ma se così la Juve li aveva intesi, e li considerava, perché dovevano per forza essere considerate permute, visto che da tali operazioni sarebbero nati oneri maggiori? Se la legge mi da la possibilità di trattare una operazione come singola e non come scambio io ricorro a questa possibilità. Come fanno, infatti, tutti.
Forse è sbagliato, forse è da correggere la legge, forse è da integrare o riscrivere da capo, ma finché c’è questa possibilità, giusto utilizzarla.
La cosa vale per tutti, tranne che per la Juve ovviamente. Che viene punita perché all’Olimpique Marsiglia ha rimandato una fattura con una nota scritta a penna, dove chiedeva di correggere un errore.
Quella sarebbe, per i nostri giudici, una falsificazione e una prova dell’illiceità di quanto si andava facendo.
Gli illustri giuristi che hanno contribuito alla formazione dei principi giuridici si rivoltano nella tomba, nel vedere questo scempio fatto di una arbitrarietà ributtante e odiosa.
Che, in punto di determinazione della pena, esprime tutta la sua forza disgustosa.
Già questa sentenza è dubbia perché ne segue una su cui si era formata la definitività di un giudicato. E la smentisce del tutto, facendo passare per fatti nuovi quel che invece non lo sono, e perché il quadro normativo è sempre lo stesso. Già è dubbio considerare fatti nuovi intercettazioni provenienti da un processo che ancora non è arrivato neppure alla fase dell’udienza preliminare. E in cui non c’è stato alcun interrogatorio e nessuna spiegazione, convincente o meno che sia, di certi comportamenti e di certe frasi intercettate.
Già si stanno utilizzando come prove quelli che sono invece mezzi di ricerca delle prove. Già non si sa bene prove di cosa, visto che il ricorso alle plusvalenze non è disciplinato dalla legge, tanto che non c’è alcun prezzario di riferimento.
Già tale ricorso viene praticato, come le stesse operazioni della Juve confermano, da molte altre società. Prima tra tutte il Napoli, che ha potuto acquistare Oshimen, che sta contribuendo a fargli vincere il campionato, valutando un giocatore che ora gioca in serie D addirittura 7 milioni di euro.
Mentre le operazioni sotto osservazioni fatte dalla Juve riguardano giocatori del settore giovanile o della serie C. Non certo quelli che ci hanno fatto vincere i campionati, strapagati. E infatti uno dei momenti più penosi della sentenza è quando si cerca di far passare la valutazione dello scambio Pjanic-Arthur per plusvalenza indebita: e un giudice sportivo cosa ne sa del valore di tali due giocatori? Dove starebbe scritto che Arthur vale 10, 30, 50, 100 milioni?
Ma poi, sapete benissimo cosa ci ha fatto vincere Arthur. Un bel nulla, a differenza di Oshimen nel Napoli. Il quale non è toccato, come da tradizione degli stati dittatoriali, dove, anche a costo di inventare e precostruire le prove, tocchi solo chi pare a te, mentre per gli altri, che te la fanno sotto al naso, c’è un totale via libera.
Dunque, stiamo parlando di scambi e di operazioni minori, che non hanno portato in prima squadra campioni, e che hanno inciso sul bilancio, ammesso che siano plusvalenze indebite, circa il 4 per cento.
Insomma già ci sono tutte queste perplessità, e i giudici cosa fanno, in punto di penalizzazione? Addirittura quasi raddoppiano l’iniziale, pur assurda e spropositata, richiesta del Procuratore.
Senza alcuna motivazione. Parlando semplicemente di “inevitabile alterazione del risultato”. Ma non basta dirla, occorre provarla. E questo un giurista dovrebbe saperlo, che, anche in punto di sanzione, deve ragionare a seconda di quanto può provare.
Anche ammesso che si voglia punire la Juve per violazione dei principi di lealtà (art. 4 Cds), la punizione deve essere proporzionata alla gravità del fatto e alla sua incisività. Qui non si sa neppure se il fatto sussiste come violazione, perché non si sa bene cosa sia stato violato. E a maggior ragione non si è in grado di capire quanto, da queste operazioni, la Juve abbia tratto in termini di vantaggio. E un giudice, anziché ragionare prudentemente, colpisce addirittura con 15 punti, mentre agli altri soggetti coinvolti non da neppure una piccola ammenda?
Una delle cose che insegnano nelle aule di giurisprudenza è che un giudice, e tra questi anche i procuratori, sono tenuti ad una oggettività tale da allontanare qualsiasi sospetto che le loro decisioni siano prese contro un nemico.
Qui i giudici hanno colpito, con mal celato imbarazzo in punto di motivazione e di decisione, un nemico.
Questo non è diritto, questo non è stato democratico, questa non è giustizia.
È un’altra cosa, che a me, che studio e applico da una vita concetti millenari, fa schifo. E mi fa pena, umana e professionale, chi, pur ricco di incarichi e di titoli, ragiona nel modo in cui ha ragionato in questo caso. Senza una stella polare giuridica, senza prudenza, scambiando concetti elementari, con una approssimazione inaccettabile.
Il giudice deve anche saper convincere, infatti. La sua è una arte: motivare in modo che la sua decisione venga sentita, da tutti, come giusta.
Qui non c’è alcuno sforzo in tal senso, perché non ci sono proprio le basi.
Questa decisione, tranne che agli odiatori della Juve, viene percepita come un esercizio di vendetta, di rancore, una esecuzione, neppure tanto raffinata, che nulla ha a che fare con quello che, come è stato insegnato a me, è stato insegnato a tutti, compresi i giudici di questo abominio.
È per questi motivi che ora la società dovrà difendersi con vigore. E noi tifosi siamo lì, a controllarla, perché non compia i gravi errori dell’altra volta.
A maggior ragione, dobbiamo continuare la nostra formidabile reazione in punto di disdetta degli abbonamenti televisivi.
Non mi faccio illusioni. Qui l’aria è percepibile: vogliono la Juve in B. Dal Coni non mi aspetto nulla di buono.
Ma almeno non gli si renda la vita facile.
Quanto a Paratici e alla sua superficialità, ne parleremo. Non ne esce affatto bene, e sono sempre più convinto della sua inadeguatezza al ruolo.
Ma una cosa è la superficialità, altra cosa la criminalità.