domenica 20 dicembre 2015

Vogliamo Indagare, Caso per Caso, sui Prestiti Concessi dalle 4 Banche Fallite? Per Favore? - [Funnyking su Rischio Calcolato]





  • Aggiornamento, per Funny.
    Saranno Banchette piccole, am i clienti sono circa un milione.
    Quindi, mica tutti avranno preso prestiti, ma in dieci anni di bilanci, sai quante scritture da verificare?
    Ai voglia te : i Big Data non servono (lascialo a noi del settore) quindi vorrebbe un esercito di finanzieri, e preparati.
    Invece basta tirare su un centinaio, di nomi fra i più chiacchierati senza troppa fatica sono sicuro che si fa centro.
    I soldi, ovvio, non torneranno indietro, ma almeno si ride un po.

  • Immagino che il 17% e rotti di non-performing sul totale di prestiti e mutui siano stati tutti erogati al clan Boschi.




  • AH FUNNY FUNNY...
    Deh dimmi perchè ancor t'ostini a cercar ovunque affari loschi,
    mamma non t'insegnò quanto a volte orrendi son i sentieri pe' li Boschi?



  • Dimenticavo. Ho dato un'occhiata e v'è chi si emesso in casa " roba varia" di Banca 3
    Etruria con rendimenti vicini all 8% da ben oltre dieci anni.
    Le prime emissione "per pochi" datano fine 2001.
    Quattordici anni se li sono tenuti.
    E per quattordici anni andava bene riscuotere, eh?
    E reinvestire.
    Sempre lì.
    É così che i risparmi, ora scomparsi, si sono formati. Con portafogli gonfiati in pretto schema Ponzi.
    Chi ha perso 100mila in realtà non li aveva. Di suo ce n'erano forse 30. Il resto pura illusione ottica.
    Tranne quelli che hanno fatto presa di beneficio prima di settembre.
    Ecco, quei nomi li si che mi piacerebbe saperli.
  • Mah, basta farsi un giro per Roma.
    Chi credere che abbia finanziato tanti, troppi appartamenti, palazzoni e ristrutturazioni?
    Grandi banche? Noooo.
    Le Banchette (sapete pronunciare Banca Marche, per esempio, senza ridere?) che ora si trovano in mano un pugno di crediti inesigibili, con gli amici degli amici a cui sono stati prestati soldi (gruppi immobiliari non proprio in mano ai comunisti e alle coop rosse) che se gli venisse chiesto di rientrare fallirebbero all'istante.
    I nomi? Ma che problema c'è?
    Basta leggersi i numeri passati di Cronache Maceratesi, o le denunce dei 5 stelle marchigiani. Non si fa neppure tanta fatica.
    Sai te quante notizie son dal cor fuggite (cioè dagli stessi dirigenti della banca, in barba agli obblighi contrattuali di riservatezza, pardon, di omertà)?
    Qualcuno ha ascoltato mai?
    Che cazzo volete adesso?
    Sono tre anni che sapevamo tutto tutti (noi clienti) e siamomrimasti lo stesso, perché come in borsa illusi di poter saltare dal treno un minuto, anche meno, prima di Cassandra Crossing.
    Io e molti altri abbiamo fatto in tempo, quelli che credevano che invece il ponte, come al solito, reggesse non hanno voluto mollare i loro 6'7-5,2% e hanno fatto il bagno.
    Sono una merda?
    Si.Lo sono.



  • Possibile che in nessuna trasmissione televisiva ci sia stato qualcuno che abbia posto queste ovvie domande? Tutti che commentano sulle truffe ai danni dei clienti delle banche ma nessuno che si chieda come mai falliscono le banche?
    Che schifo di informazione!
    • Eh, già.
      Ma quale sarebbe lo scandalo?
      Aver voluto salvare gli immobiliaristi della valdichiana,gli investitori de il porto di Cecina, alcuni palazzinari della costa e compagnia danzante?
      A spese dei soliti fessi?
      E che c'è di nuovo.
      Aspettate che tocchi a voi.
      Come i veneti.
      Terun, terun, a tutti.Poi vanno sott'acqua ed é tutto un "fratelli italiani"!
      Ma andate dove meritate, miserabili.
      Che ora tocca alle banchette (mica tanto Banchette) venete. E poi a quelle liguri e Senesi.
      E allora, i soliti, qui, invocheranno la difesa dei propri interessi, conflitto o non conflitto.
      Scene già viste.
      Basta aspettare, non ci vorrà molto.
      Ė cinque anni che aspetto questo momento. Sono cinque anni che lo dico.
      Se non é successo niente, in apparenza, é perché é tutto stato infilato sotto il tappeto.
      Solo che alla fine, anche sotto il tappeto, un cadavere comincia a puzzare.
  • Ripeto fino alla noia. ....Agenzia delle Entrate ha da febbraio 3 banche dati (Big Data) sulle banche con dati fin dal 2010....vogliamo "uscirli" sti cazzo di numeri Signora Orlandi...vogliamo iniziare per davvero a lavorare e finirla di cagare il cazzo a quelle partite iva che vi pagano mensilmente lo stipendio...andiamo a prendere i ladri VERI signora Orlandi?
    • la prescrizione è di sei anni ciccio, aspetta ancora un pochettino, ok?
      vedi che è tutto chiaro?
      • Errore.
        É interrompibile. Bastano un po di astuzie.
        Neanche dopo dieci sei al sicuro.
        Parola del mio tributarista.
        • vero, ma processi del genere si prolungano nel tempo, dato che ci sono letteralmente milioni di fogli e di firma da controllare.
          Il tempo è passato e in cassazione non ci arrivano sicuro, gli imputati.

          Sacrosanto, chi ha sbagliato non solo non ha pagato ma ha fatto una gran carriera...
          Una parola da dire però ce l'ho per i risparmaitori.
          Non funziona che quando si
          incassano le cedole il mondo è bello e quando non tornano indietro i capitali,
          il mondo diventa brutto e tutti sono cattivi.
          Voi direte, ma come ti
          permetti di fare affermazioni di questo tipo ?
          Perché lo vedo in ogni
          istante di tempo. E’ un mondo che è basato sull’avere. Da ogni dove arrivano
          pressioni per cercare un rendimento (avidità). Ogni giorno mi arrivano molteplici email di chi riceve proposte le più disparate dai vari promotori finanziari, funzionari di banche e venditori assortiti. E’ pieno zeppo di persone che fanno il giro dei quattro cantoni,andando a cercare le meraviglie assortite costruite dagli uffici marketing che
          creano prodotti per segmenti di mercato con deficit cognitivi e che si
          nascondono, quando gli viene spiegata in modo chiara la situazione, dietro un “ma io non capisco di finanza”(ahhhssi?).
          La maggioranza delle persone non ha ancora compreso che qui non si tratterà di fare il +2% o il -3% in un anno, ma che ci sarà un bagno di sangue della ricchezza delle famiglie che sarà di qualche migliaio di miliardi di € (l’antipasto c’è già stato in questi anni). Qui non si tratta di trovare la soluzione, perché non esiste, ma di fare tante cose meno peggio che messe insieme consentano di avere più probabilità di tutelare (perdere meno e
          possibilmente guadagnare) i propri risparmi ed il patrimonio complessivo
          famigliare ed aziendale. Qui non si tratta di vincere le battaglie, ma di non
          perdere la guerra-












          Altro che sistemi software...io userei il vecchio metodo del nome, cognome e spunta a penna. Consegnerei il tutto a svariate coppie di persone specializzate, quelli che vanno a suonare il campanello alle 4 e dicono "Ao, ce li hai i soldi?" e se non li hai via un ditino. Poi, finite le dita...



  • Non si faranno mai questi controlli selettivi, troppo da perdere nella ramificata sala controllo, oltretutto lo stesso Renzi ha appena finito (dopo una esilarante tessitura di lodi all'economia statunitense quale modello da seguire), di esclamare in diretta che le banche italiane sono solidissime e chi dice il contrario è un dispensatore di negatività.
    Ecco a chi si è in mano.
  • Ma neanche un dipendente che in qualche modo faccia uscire la lista di questi prestiti "non convenzionali"? Nessuno in queste banche che faccia emergere al pubblico i dati?


    Ma se sono tre anni che si sa tutto!
    Solo che senti dire le cose, non succede niente, ti danno il 7%, ovvio che poi tutti viaggiano con lo "staremo a vedere".
    C'è con chi "staremo a vedere" ha incassato ormai il 25-35% del capitalemsotto forma di interessi. Reinvestiti li, ovviamente.
    Giocare al raddoppio eh?
    Banca Etruria sono sette anni che offre rendimenti fuori dal mondo.
    E dove sono finiti i soldi degli investitori?
    Basta farsi un giro. La gran parte sul territorio stesso, cioè ai soci stessi.
    Che con grande spirito di innovazione li hanno investiti, quelli che avanzavano dopo essersi fatti i loro comodi ma comunque la gran parte, in simpatici edifici in zone prive di ogni prospettiva futura perché sovrasature di tutto e sovrasfruttate in tutti i sensi.
    Soldi in mattoni, porti, aereoporti, resort, tenute e infrastrutture che nessuno vuole, almeno non a quei prezzi.
    E ovviamente a ingegneri, geologi, commercialisti, sindaci revisori, amministratori, consiglieri, avvocati, consulenti di ogni genere che pesano in un investimento immobiliare per ormai il 20-25%.
    Per non parlare dei facilitatori, portaborse e sherpa vari, con le loro sponsorizzazioni a società sportive, eventi culturali, patrocinio e finanziamenti alla fondazione di turno.
    Ah,già.
    Poi, da qualche parte, ci stanno i ladri.
    Vabbe, cerchiamo quelli, eh?
    Magari coi Big Data.
    Perche siamo tutti nati ieri pomeriggio sul tardi, vero?
    • Oppure basterebbe che qualche hacker di casa nostra, qualche Anonimus che invece di dedicarsi ai siti jihadisti, ci facesse un piacere che sicuramente è nelle sue corde........



      Lo scrivevo già ieri. Appendere per i talloni i responsabili delle banche che hanno elargito soldi agli amici degli amici mandando in bancarotta le loro banche e rovinando gli obbligazionisti delle stesse è l'unico atto che possa riportare la giustizia e dare un esempio a tutti banchieri e loro finti controllori.
      Meriterebbero nel minimo un 41bis perché hanno fatto danni quanto la mafia e probabilmente anche più.
      Questa gente, sono pronto a scommetere, non farà un solo giorno di carcere, perché se fossero messi alle strette potrebbero parlare inguaiando alti livelli politici.
      Come già successo per MPS potrebbe accadere che qualcuno venga "suicidato". Di sicuro quello che si è visto con le 4 banchette rosse di provincia è la punta dell'iceberg e le sante norme europee da gennaio toglieranno ogni alibi ai rocciosi finanzieri de' noantri. Il rafforzamento della vigilanza bancaria della BCE sarà elemento di maggiori garanzie ed è un tantino più difficile da addomesticare.
      Prevedo uno spumeggiante 2016 per banchieri e loro protettori/beneficiari.


  • ricordo che verso la fine degli anni '80 mi diedero da analizzare i bilanci della "Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio" per questioni di relazioni interbancarie
    il bilancio riportava masse in crescita anno su anno del 15% ed un margine d'interesse siderale, con utili significativi: un bilancio apparentemente eccellente
    peccato che, leggendo meglio, si capiva che il margine d'interesse derivava dall'addebito di interessi di mora (all'epoca i tassi erano oltre il 10%), e le masse crescevano di conseguenza perchè la banca non riusciva a farsi rimborsare i prestiti
    ricordo anche lo stupore dei miei capi quando consegnai una relazione negativa
    da allora sono rimasto a domandarmi quanto tempo sarebbe servito per arrivare all'inevitabile: devo dire che non avrei mai e poi mai pensato che la situazione potesse rimanere "congelata" per 25 anni, anche perchè ritenevo (e tuttora ritengo) impossibile che gli ispettori di Bankitalia non vedessero quello che un neolaureato alle prime armi era in grado di vedere

    • Esatto se i controllori sono complici dei controllati, il sistema è marcio dalle fondamenta. E le 4 banchette sono state solo le prime cartine di Tornasole del marciume acido del sistema.

venerdì 18 dicembre 2015

La farsa smascherata della banca del territorio e dei debitori di riferimento



scritto da il 15 Dicembre 2015
 
In Italia improvvisamente la gente scopre che le banche possono fallire. Come tutte le società di capitali, anche gli istituti di credito possono, se gestiti male, chiudere baracca e burattini. Nel nostro codice il fallimento vero e proprio non c’è ma tocchiamo con mano in questi giorni che il commissariamento e il bail-in – ossia il coinvolgimento dei creditori non garantiti – sono questioni di primaria rilevanza, sulle quali i nostri rappresentanti al Parlamento Europeo hanno omesso colpevolmente di informare l’opinione pubblica.
Andare a rileggersi le dichiarazioni dei banchieri delle banche coinvolte – responsabili del dissesto – mette una gran tristezza. Tra i tanti, l’ex presidente di Banca Etruria Giuseppe Fornasari che, a seguito dell’avvenuto aumento di capitale (chiamato per coprire le perdite incessanti) disse, memorabilmente : «Un’ulteriore conferma del fatto che rappresentiamo a pieno titolo il ruolo di Popolare di riferimento del Centro Italia e di banca solida, dal corpo sociale coeso».
Ecco. Ci siamo. Siamo arrivati alla parola chiave, “territorio”. Per anni i peggiori banchieri italiani si sono trincerati dietro questa espressione per coprire le loro malefatte, i finanziamenti ad “amici degli amici”, senza uno straccio di garanzia, una seria analisi del merito di credito. Mentre in pubblico, ai dibattiti, i banchieri locali diffondevano il verbo del sostegno all’economia del “territorio”, in realtà venivano finanziate operazioni immobiliari di dubbia qualità che spesso raggiungevano fino al 40% degli impieghi totali della banca. Su 6,77 miliardi di impieghi, Banca Etruria ha il 32% di crediti deteriorati (2,88 miliardi), un record poco invidiabile.
Il sociologo Ilvo Diamanti ha spiegato molto bene come il concetto di territorio non deve essere visto come puro dato geografico, ma come ambiente antropologico: “Lo spazio sociale è fatto di relazioni, vincolate al territorio. Relazioni che vanno anche oltre il territorio, hai comunità il cui spazio non è territoriale; sono comunità professionali, religiose, culturali”.
Il nostro territorio è bellissimo, il FAI è lì per ricordarcelo, ma diversi banchieri locali hanno trovato dentro questa parola la strada per delinquere. Tali banchieri avrebbero dovuto prendere esempio da Piero Melazzini – scomparso poche settimane fa – per lungo tempo alla guida della Banca Popolare di Sondrio. Come ha scritto Marco Vitale, “Melazzini guidò, con mano ferma e sicura, la sua banca verso una crescita importante ma coerente con le sue radici, con la sua storia, con la sua personalità, con la sua valle, senza farsi ingannare dagli idoli della corsa alle fusioni, alle acquisizioni e alla crescita dimensionale fine a se stessa”.
Se andiamo a vedere le banche commissariate dalla Banca d’Italia, leggiamo tutti nomi di luoghi non riconducibili alle grandi città: a, Bcc di Terra d’Otranto, Istituto per il Credito Sportivo, Cassa di risparmio di Ferrara, Cassa di risparmio di Loreto, Cassa di risparmio di Chieti, Popolare dell’Etna, Popolare delle Province Calabre, Banca Romagna Cooperativa, Bcc Irpina, Banca Padovana, Banca Marche, Cassa Rurale di Folgaria, Credito Trevigiano, Banca di Cascina, Banca Brutia.
Non solo gli istituti di credito prestavano a capocchia, ma lo facevano a favore delle parti correlate, ossia dei consiglieri di amministrazioni e dei sindaci (pagati oltretutto profumatamente mentre le perdite di gestione si accumulavano).
Nelle Considerazioni finali del 31 maggio 2014 il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco scrisse: “Bisogna operare per rafforzare la separazione tra fondazione e banca, non consentendo il passaggio dai vertici dell’una agli organi dell’altra ed estendendo il divieto di controllo ai casi in cui esso è esercitato di fatto, anche congiuntamente con altri azionisti. Rapporti stretti con il territorio di riferimento sono, per molte banche medie e piccole, una fonte di stabilità, che si riverbera a beneficio dell’economia locale. Tuttavia, un’interpretazione fuorviante di questi rapporti può distorcere l’erogazione del credito, mettendo a rischio la solidità dei bilanci bancari e l’allocazione efficiente delle risorse. Casi di questo genere divengono più probabili in presenza di una recessione prolungata come quella che abbiamo attraversato. Operiamo per indurre le banche a rafforzare i presidi aziendali, organizzativi e di governo societario al fine di prevenire degenerazioni nei rapporti di credito con la clientela, a correre ai ripari quando queste si siano manifestate” (a voce Visco li ha definì “comportamenti inaccettabili”).
Allora, eravamo a poca distanza temporale dall’arresto di Berneschi, dominus incontrastato di Banca Carige. Il riferimento di Visco non era casuale. Il governatore toccò un tasto dolente: i “debitori di riferimento”, coloro i quali siedono nel consiglio di amministrazione e, approfittando della posizione influente, si fanno finanziare dalla banca stessa. Invece di essere azionisti di riferimento (mettendoci soldi veri), diventano – disgraziatamente per obbligazionisti e contribuenti – debitori di riferimento. Alcune banche hanno trasformato la bandiera della vocazione trerritoriale nella coperta del peggior capitalismo di relazione.
Subito dopo aver letto le Considerazioni finali di Visco, mi arrampicai in alto nella mia biblioteca per recuperare un testo di vent’anni fa, Una privatizzazione molto privata (Mondadori, 1996), dove il capace banchiere Sergio Siglienti inventò l’espressione debitori di riferimento: “Quando una decisione è affidata (anche a livello di comitato esecutivo) a esponenti di imprese clienti della banca, essa può trovarsi a essere di fatto controllata dai suoi debitori” (pag. 95). Ecco il busillis. Per anni in Italia abbiamo avuto “debitori di riferimento”, invece che seri “azionisti di riferimento”.
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Torniamo all’oggi. La distruzione patrimoniale di una delle banche commissariate, Banca Etruria, è solo l’epilogo drammatico di una gestione non certo assennata e densa di conflitti d’interesse. Proprio su questo punto, Bankitalia ha smascherato in un’ispezione l’azione nefasta dei “debitori di riferimento”. Tredici ex amministratori e 5 ex sindaci hanno cumulato 198 posizioni di fido a loro concessi per ben 185 milioni di euro. Ne vengono utilizzati 142, con perdite per la banca di 18 milioni. Sarebbe bello sapere i ruoli giocati nella vicenda dalla famiglia del ministro Maria Elena Boschi: il fratello Emanuele era il numero due del settore “crediti deteriorati” e il padre Pier Luigi era vicepresidente del consiglio di amministrazione (sebbene per soli 8 mesi dal maggio 2014 al febbraio 2015), e al contempo era consigliere in una miriade di società immobiliari e cooperative, nonché uomo di punta della Coldiretti locale.
Se è lecito pensare che il direttorio della Banca d’Italia nel corso degli ultimi anni sia stato troppo timido (anche Guido Carli aspettò troppo a commissariare le banche di Sindona , poi suggerì al Tesoro di nominare commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli nel settembre 1974) – mentre avrebbe dovuto essere più incisivo con amministratori delegati e presidenti inadeguati al ruolo di banchiere nell’accezione di Raffaele Mattioli – la responsabilità maggiore va agli azionisti che avrebbero dovuto per tempo intervenire e sostituire il management.
Invece abbiamo assistito ad assemblee di approvazione del bilancio con voto bulgaro e per acclamazione. Non di meno, deve essere posto al vaglio di un attento discernimento l’operato della magistratura, la quale riceve puntualmente dalla Banca d’Italia le relazioni ispettive dove sono evidenziate le ipotesi di reato. Così si è espresso il direttore generale di Bankitalia Salvatore Rossi: “Non possiamo fare interrogatori, perquisizioni. Possiamo chiedere, fare ispezioni e dire alla magistratura quello che non va”. Quanto tempo ci hanno impiegato i magistrati di Genova e Vicenza per intervenire con decisione? Quanti giudici hanno nicchiato e coltivato relazioni con i “debitori di riferimento”?
FONTE
Twitter @beniapiccone

sabato 12 dicembre 2015

Le piccole banche erano marce e abbiamo fatto finta di niente

 
Dietro il crac e il salvataggio di Banca Marche e delle altre popolari c’è un sistema che non funziona più, ma ce ne accorgiamo solo ora. Troppo tardi

La storia delle piccole banche italiane parte da molto lontano. Da un mondo ottocentesco di piccoli agricoltori, artigiani e commercianti che per i grandi istituti di credito di allora non erano, tecnicamente, “bancabili”. Dalla nascita del banchiere di provincia, sovente uno di quegli stessi piccoli imprenditori, talvolta addirittura il parroco di Paese, che instaurava con ogni piccolo imprenditore locale un rapporto personale e fiduciario, che spesso prescindeva dal merito di credito. Dalle piccole casse di risparmio che nascono, crescono e proliferano ovunque, sotto ogni campanile. Dalla pratica dei castelletti bancari e del multiaffidamento che diventa la prassi per quel 90 e rotti percento di piccole e piccolissime imprese che diventano la spina dorsale dell'economia italiana. Dai consigli di amministrazione che diventano lo specchio della piccola società economica dei piccoli territori italiani.
Poi cade il muro di Berlino, la storia si rimette in moto e arrivano la globalizzazione e l'Unione Europea, ognuno con le sue regole del gioco, siano esse la concorrenza senza più barriere e protezioni (la globalizzazione) o parametri più stringenti relativi alla disponibilità di concedere credito da parte di tali, piccoli istituti (l'Europa). Una spirale che seleziona sia le imprese, sia le banche. Il sistema - come in un gioco di specchi - si polarizza tra chi, banche e imprese, ce la fa a competere e chi no.
Alcune banche, grandi o piccole che siano, si fondono in gruppi più ampi, parecchie imprese spariscono. Ma nei territori, sotto i campanili, resistono alcune ridotte che di entrare nel nuovo millennio non ne vogliono sapere. Piccole imprese che non vogliono sparire e piccole banche che continuano a prestare loro i soldi, in spregio a ogni rating e a ogni direttiva comunitaria, in un legame che taluni, allora come oggi, definiscono come perverso e malato e altri, oggi come allora, glorificano come impavida resistenza del nostro capitalismo - di territorio e di relazione - contro la dittatura dell'algoritmo e delle tecnocrazie, che sono distanti e che non capiscono. Ma le cose vanno avanti, in qualche modo. Che sono anni di vacche grasse, di liquidità che scorre a fiumi, di mutui e finanziamenti - anche solo per andare in vacanza - concessi a chiunque li chieda, di furbetti del quartierino con manie di grandezza.
Nei territori, sotto i campanili, resistono banche e imprese che di entrare nel nuovo millennio non ne vogliono sapere
Questo fino al 2007. Poi arriva la crisi, le banche si trovano in pancia un oceano di titoli spazzatura, smettono di prestarsi i soldi tra loro e di prestarli a imprese e cittadini, che nessuno si fida più di nessuno. Ricevono un oceano di soldi dai governi e dalle banche centrali, che usano per salvare quegli stessi stati che glieli hanno dati, comprando titoli di Stato, o per salvare se stesse, creando riserve su riserve che coprano le perdite che hanno in pancia. Per le grandi banche, la spazzatura si chiamano derivati. Per le piccole, soprattutto per le piccole, un mare di sofferenze, di crediti non più esigibili e di immobili che, complice la bolla dell'edilizia, si svaluta di minuto in minuto.
Le grandi banche, però, sono grandi e reggono il colpo, a prezzo di tagli drastici agli attivi patrimoniali, al personale e al credito concesso. Loro sono i bankster - crasi tra banker e gangster - i cattivi, quelli che tolgono ossigeno al sistema produttivo, che valutano il merito di credito con dei semaforini e che fanno suicidare i piccoli imprenditori che non hanno i soldi per pagare gli stipendi.
Le medie e le piccole, invece, non sanno più che pesci pigliare e vanno avanti per inerzia. Tra il 2008 e il 2011 continuano a prestare soldi a chi glieli chiede - magari un po' meno, certo -, soprattutto se questo qualcuno è amico, o amico di amici (a volte lo fanno pure i grandi, sia chiaro, qualcuno ci rimette la poltrona e qualche volta, come a Siena, succede il finimondo) soprattutto se la proprietà della banca è in mano a fondazioni espressioni a loro volta del notabilato locale. E, se non sono quotate, aumentano il loro capitale facendo comprare agli sportelli - in palese conflitto d'interesse - azioni e obbligazioni ai loro correntisti, magari promettendo loro mutui a tassi agevolati.
In qualche modo, sperano che passi la nottata e decidono consapevolmente di non accantonare in modo proporzionale all'aumento delle sofferenze per non deprimere utili e dividendi - in particolare le popolari venete - e avere soci plaudenti. Non sanno - o forse fanno finta di non sapere - che dietro la curva c'è il progetto dell'Unione Bancaria Europea, con il suo portato di regole e rigidità del tutto aliene al nostro piccolo mondo antico, che fa della ricerca di espedienti ed eccezioni per sopravvivere la propria regola di vita. Non sanno - o fanno finta di non sapere - che dietro quella curva c'è pure il bail in, la regola - sacrosanta, in linea teorica - secondo cui a pagare per un fallimento bancario sono in prima istanza gli stakeholder di quell'istituto, siano essi azionisti, obbligazionisti o grandi correntisti.
Il velo, insomma, cade quando la Bce comincia ad assumere un ruolo di vigilanza e mette a nudo tutte le sottovalutazioni nascoste nei bilanci e costringe le piccole banche ad aumenti di capitale, con soci - le fondazioni - che non hanno più soldi. Nel frattempo le sofferenze montano e gli incagli pure, qualche banca comincia a chiedere una bad bank di sistema sul modello spagnolo che se le prenda tutte con se, liberandole dal male, mentre qualcun'altra - le più grandi, al solito - comincia a pensare di farsela da sola, la sua bad bank e qualcun altro, generalmente i grandi fondi e le società di gestione del risparmio, comincia a pensare di fare incetta di quelle sofferenze, comprandole a zero, per guadagnarci, complessivamente, parecchio. Aspettano, però: che il pettine raggiunga il nodo, che la bolla esploda davvero.
Luigino D'Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si suicida dopo aver visto svanire 170mila euro di obbligazioni, è la vittima, immolata sull'altare dell’inerzia e dell'incapacità del sistema
E le piccole banche continuano a prestare soldi a chi gli pare, e le sofferenze montano, i bilanci piangono, i titoli crollano e i piccoli azionisti e obbligazionisti si ritrovano con un pugno di mosche in mano e i fondi aspettano sulla riva del fiume che passino i cadaveri. E i cadaveri arrivano, eccome se arrivano. Qualche settimana fa è stato il turno di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. A questo giro si chiamano Banca Marche, Banca Etruria, CariFerrara e CariChieti. Il governo le salva, si fa per dire, con un prestito-ponte generosamente elargito dalle grandi banche e con un decreto approvato in tutta fretta che scongiura il rischio bail in e mette al riparo, perlomeno, i correntisti dal prelievo forzoso dai loro conti.
Le cifre, però, fanno comunque spavento. Otto miliardi e mezzo di sofferenze, che vengono conferite a una bad bank con una valore nominale di un miliardo e mezzo, circa il 17% (le grandi banche valutano le loro sofferenze al 40% del loro valore, a proposito di soldi prestati a caso). E a pagare il conto sono i piccoli azionisti e obbligazionisti dei piccoli territori, circa 150mila persone, con una media di 10mila euro di titoli a testa, che vedono i loro risparmi andare in fumo in un battito d'ali.
Luigino D'Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si suicida dopo aver visto svanire 170mila euro di obbligazioni, è l'idealtipo della vittima, immolata sull'altare dell’inerzia e dell'incapacità del sistema del credito di territorio e degli azzardi dei suoi manager. Ma qualcuno dovrebbe ricordare che quel sistema e quei manager, che oggi definiamo criminali, li abbiamo creati, coccolati, glorificati, tenuti al riparo dal male affinché ci tenessero al riparo da Francoforte, da Basilea e della globalizzazione.
Anche se le fondamenta erano marce, anche se sapevamo benissimo che la corda attorno al collo era sempre più stretta, che il Re era nudo come un verme. Lo sapevamo, ma abbiamo deciso di far finta di niente e di andare avanti così, col dito puntato contro l'Europa cattiva e con la nostra solita, spocchiosa, autoindulgenza. Quella che ci porta a giustificare chi ha deliberatamente e consapevolmente giocato col fuoco, nel nome del territorio e delle relazioni. Quella che ci porta a chiedere - o promuovere - aiuti umanitari verso chi, giocando deliberatamente e consapevolmente col fuoco, si è scottato. E forse da domani avremo un credito migliore e un capitalismo migliore, chi lo sa. Di sicuro, però, non smetteremo mai di avere alibi.

Da Linkiesta

mercoledì 9 dicembre 2015

Indovina, indovinello? Chi raffina il petrolio dell'islamico staterello?

Cercando in rete notizie sul grande mistero di chi sia a foraggiare il califfo del daesh mediante l'acquisto del petrolio estratto dai pozzi in Siria e in Iraq, ho trovato un interessante reportage del sito al-Araby, che viene ripreso da diversi siti italiani e che si intitola Raqqa's Rockfellers: How Islamic State oil flows to Israel.

L'articolo spiega, citando diverse fonti, chi e come il petrolio dell'Isis arrivi in Israele, ma riserva una sopresina che riguarda noi italiani.

Ecco il passaggio che mi ha fatto letteralmente  saltare sulla sedia: "The oil is sold within a day or two to a number of private companies, while the majority goes to an italian refinery owned of the largest shareholders in an italian football club [name removed] where the oil is refined and used locally".

Mi chiedo chi possa essere... 

Ecco alcuni siti in italiano che riportano la notizia

Li copio qui di seguito, non si sa mai che spariscano...

Israele comprerebbe il greggio contrabbandato dal Daesh e dai kurdi irakeni attraverso la Turchia

Il petrolio dello Stato Islamico finisce in Italia passando per Israele?

L’intricata rete di complicità e interessi che finanzia il Daesh e i suoi volonterosi carnefici
[1 dicembre 2015]
Israele è diventato il principale acquirente di petrolio dal territorio controllato dallo Stato Islamico/Daesh (Isis), almeno secondo quanto hanno affermato per primi i kurdi siriani del Rojava, in una tesi poi rilanciata ad agosto in un’inchiesta del Financial Times e ora ripresa, dopo le nuove accusa di Vladimir Putin, da Globes Israel business news (che a sua volta riprende a sua volta i rapporti del giornale qatariota al-Araby al-Jadeed). Secondo queste indagini, «contrabbandieri curdi e turchi trasportano il petrolio dal territorio controllato dall’Isis  in Siria e Iraq e lo vendono a  Israele (…) Si stima che circa 20.000 – 40.000 barili di petrolio vengono prodotti ogni giorno nel territorio controllato dall’Isis generando 1 -1,5 milioni di dollari di profitto giornaliero per l’organizzazione terroristica».

Il petrolio verrebbe estratto a Dir A-Zur in Siria e in due campi in Iraq e trasportato nella città curda di Zakhu in un triangolo di territorio incuneato tra Siria, Iraq e Turchia, i mediatori israeliani e turchi arrivano in questa terra di nessuno per concordare i prezzi, poi il greggio viene contrabbando nella città turca di Silop come proveniente dalla regione semi-indipendente kurda dell’Iraq e venduto a 15 – 18 al barile, mentre sul mercato legale WTI e Brent Crude attualmente valgono 41 e 45 dollari al barile. Secondo Globes Israel, il greggio del Daesh passa dalle mani del  «mediatore israeliano, un uomo di 50 anni con doppia cittadinanza greco-israeliana noto come Dr. Farid. Trasporta il petrolio attraverso diversi porti turchi e poi in altri porti, con Israele fra le principali destinazioni». Il Financial Times  scrive che Israele ottiene il 75% delle sue forniture di petrolio dal Kurdistan iracheno,  con il quale ha stretti rapporti fin dai tempi della guerriglia dei kurdi contro Saddam Hussein, e più di un terzo di queste  esportazioni passano attraverso il porto turco di Ceyhan, che viene descritto come un «potenziale gateway per il greggio di contrabbando dell’Isis».

Ma per l’Italia la rivelazione più inquietante arriva dall’inchiesta “Raqqa’s Rockefellers”, Bilal Erdogan, KRG Crude, And The Israel Connection”, pubblicata il 29 novembre da Zero Hedge a firma Tyler Durden, nella quale si legge: «Secondo un funzionario europeo di una compagnia petrolifera internazionale che ha incontrato al-Araby in una capitale del Golfo, Israele raffina il petrolio solo “una o due volte”, perché non ha raffinerie avanzate. Esporta il petrolio nei paesi mediterranei – nei quali il petrolio “guadagna uno stato di semi-legittima” – per $ 30 a $ 35 al barile. Il petrolio viene venduto entro un giorno o due a un certo numero di compagnie private, mentre la maggioranza va in una raffineria italiana di proprietà di uno dei maggiori azionisti di una società calcistica italiana [nome rimosso] dove il petrolio viene raffinato ed utilizzato localmente. Israele è, in un modo o nell’altro, diventato il principale commerciante di petrolio dell’Isis. Senza di loro [gli israeliani], la maggior parte del petrolio prodotto dall’Isis resterebbe in giro tra l’Iraq, Siria e Turchia. Anche le tre companies non avrebbero ricevuto il petrolio se non avessero un acquirente in Israele». Affermazioni pesanti, sulle quali sarebbe opportuno far indagare al più presto gli organi competenti.

Tutto, si afferma, comincia nel giugno del 2014, quando la petroliera SCF Altai attracca nel porto israeliano di Ashkelon per scaricare il primo carico di greggio del governo regionale kurdo irakeno (KRG) proveniente da un oleodotto che arriva al porto turco di Ceyhan, una pipeline progettata per bypassare le condotte del governo irakeno e non pagare le tasse a Bagdad. Una settimana prima, la SCF Altai aveva caricato greggio kurdo al largo di Malta con un trasferimento da nave a nave dalla The United Emblem, Anche la  The United Emblem aveva caricato il greggio all’oleodotto kurdo di  Ceyhan. Da quel momento i kurdi irakeni sembrano disposti a contrabbandare qualsiasi tipo di petrolio, anche quello dei nemici dello Stati Islamico, soprattutto verso il territorio degli storici alleati israeliani.

Dopo che all’’inizio di questo mese, Putin ha denunciato il traffico di petrolio al G20 in Turchia, anche gli USA hanno attaccato le colonne di camion che trasportano il petrolio del Daesh e, in due settimane, gli attacchi aerei di russi ed americani hanno vaporizzato 1.300 camion-cisterna che trasportavano il greggio dell’ISIS.  Nessuno riesce a capire perché gli USA ci abbiano messo così tanto ad attaccare questo contrabbando così vitale per lo Stato Islamico, Ma secondo uno studio di George Kiourktsoglou e Alec Coutroubis, che hanno analizzato le tariffe delle navi cisterna a Ceyhan collegandole ad eventi significativi legati al petrolio che coinvolgono  l’ISIS, «Sembra che ogni volta che lo Stato Islamico sta combattendo in prossimità di una zona che ospita le attività petrolifere, i 13 esportatori  da Ceyhan raggiungano tempestivamente il picco. Ciò può essere attribuito ad una spinta in più data al greggio contrabbando di petrolio, con l’obiettivo di generare subito ulteriori fondi, assolutamente necessari per la fornitura di munizioni ed equipaggiamenti militari».

Quindi il porto turco di  Ceyhan è quello dal quale viene trasportato il petrolio curdo, tecnicamente “illegale” per Baghdad, ma Kiourktsoglou e Coutroubis fanno notare che «Le quantità di greggio che vengono esportate dal terminal di Ceyhan superano la quota di un milione barili al giorno e, dato che l’ISIS non è mai stata in grado di commerciare ogni giorno più di 45.000 barili di petrolio, diventa evidente che l’individuazione di quantità simili di greggio di contrabbando non può avvenire attraverso metodi di stock-accounting». Questo significa che se il greggio del Daesh viene spedito da Ceyhan, potrebbe diventare facilmente “invisibile” all’interno dell’enorme quantità di petrolio che i kurdi irakeni nascondono a Bagdad.  Untraffico dal quale sembrano escluse le grandi multinazionali come Exxon Mobil e BP, che hanno miliardi di dollari di progetti congiunti con l’Iraq e che non vogliono certo metterli a rischio per contrabbandare greggio kurdo mischiato con quello dello Stato Islamico. Zero Hedge scrive che per questo «Alcuni acquirenti hanno petroliere ad Ashkelon, Israele, dove viene caricato in impianti di stoccaggio per essere rivenduti in seguito ad acquirenti in Europa. Il petrolio greggio curdo è stato venduto anche in mare aperto a Malta tramite trasferimenti da nave a nave aiutare mascherare gli acquirenti finali e proteggerli così dalle minacce dll’impresa statale irakena SOMO». Un traffico che utilizzerebbe addirittura petroliere “civetta” vuote per ingannare gli investigatori. Ma una cosa è certa, tra maggio ed agosto oltre un terzo di tutte le esportazioni di greggio dall’Iraq settentrionale è andato a finire in Israele, un Paese che il governo centrale Irakeno non riconosce, passando da Ceyhan, in Turchia, un Paese che ha dichiarato guerra ai kurdi del PKK e che li bombarda sia nel Kurdistan irakeno che nel Rojava in Siria.

Il petrolio dello Stato Islamico passa quindi da una porta di contrabbando aperta dai Kurdi irakeni in Turchia e un colonnello dei servizi segreti iracheni che sta indagando insieme agli americani sui finanziamenti del Daesh, ha spiegato ad al-Araby al-Jadeed  che «Dopo che il greggio viene estratto e caricato, le cisterne lasciano la provincia di Ninive per dirigersi a nord verso la città di Zakho, 88 km a nord di Mosul». Zakho è una città del Kurdistan iracheno, proprio al confine con la Turchia. «Dopo che i camion petroliferi dello Stato Islamico arrivano a Zakho – normalmente 70-100 di loro tutti insieme – sono scaricati dalle mafie del contrabbando di petrolio, un mix di curdi siriani e iracheni, oltre ad alcuni turchi e iraniani. Il responsabile della spedizione di petrolio vende il greggio  al miglior offerente». La concorrenza tra bande organizzate ha raggiunto il culmine, e l’assassinio di capi mafia è diventata un evento comune. Il miglior offerente paga subito in dollari contanti tra il 10 e il 25% del valore del greggio, il resto viene pagato dopo. I camionisti del Daesh consegnano i loro veicoli ad altri guidatori che lo trasportano con permessi e documenti turchi per di attraversare il confine. Una volta in Turchia, i camion raggiungono Silopi, dove il petrolio viene consegnato a al dottor Farid, alias zio Hajji Farid. «Una volta all’interno della Turchia, il petrolio è indistinguibile dal greggio venduto dal Governo regionale del Kurdistan – dice il colonnello irakeno -, in quanto sono entrambi venduti come “fonte sconosciuta” o petrolio  “illegale” “senza licenza”. Le compagnie che acquistano il petrolio KRG acquistano anche il petrolio di contrabbando dello Stato Islamico».

Quindi le strade del contrabbando passerebbero tutte dalla Turchia, per far arrivare il greggio del Daesh fino ai porti turchi di Mersin, Dortyol e Ceyhan e da qui in Israele, con una diramazione marina verso Malta e l’Europa, approdando – da quanto denuncia il giornale del Qatar – anche in Italia.

Ma la cosa che ha fatto probabilmente più innervosire il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è che Putin abbia confermato al G20, che si teneva proprio in Turchia, che il petrolio del Daesh e del KRG è gestito da intermediari che apparterrebbero alla ristretta cerchia del presidente turco. Secondo Tolga Tanis, corrispondente da Washington per il quotidiano turco  Hurriyet, la PowerTrans, l’impresa alla quale il governo turco ha dato l’esclusiva del trasporto del greggio kurdo, sarebbe gestita  in realtà dal figlio illegittimo di Erdogan, Berat Albayrak. Naturalmente Erdogan ha subito denunciato per diffamazione Tanis. Ma diversi funzionari kurdi iracheni hanno confermato che ad Ahmet Calik, un uomo d’affari con strettissimi legami con il clan Erdogan, era stato concesso l’appalto per trasportare petrolio curdo via terra con i camion in Turchia.

«In altre parole – scrive Durden – Erdogan  sta già trafficando greggio illecito dal KRG (con cui Ankara, tra l’altro, è in amicizia, nonostante il fatto che siano curdi) tramite un figlio illegittimo e in grandi quantità». Ma nel traffico, secondo il giornale turco Zaman e altre fonti russe, sarebbe coinvolto direttamente il figlio di Erdogan Bilal e forse anche l’altro figlio Burak che possiede una flotta di navi, una delle quali, la Safran 1, nel 2014 era ancorata nel porto israeliano di Ashdod. Inoltre sui social media circolano foto che mostrano una persona che somiglia molto a Bilal Erdogan insieme a quelli che vengono definiti  comandanti ISIS. I Turchi smentiscono, ma  i media russi sostengono che si tratta davvero di leader del Daesh che avrebbero partecipato a massacri in Siria, ad Homs, e nel Rojava liberato dai Kurdi progressisti siriani.

Ma la domanda più importante alla quale rispondere è: «Chi sono gli intermediari?» del greggio dello Stato Islamico mischiato a quello illecito della KRG? Diverse fonti individuano alcune grosse agenzia di trading occidentali e secondo la Reuters tra le agenzie che trattano il greggio della KRG ci sarebbero Trafigura e Vitol, ma « Sia Trafigura che Vitol si sono rifiutate di commentare il loro ruolo nella vendita del petrolio». Ma anche il Financial Times osserva che «Sia Vitol che Trafigura avevano pagato il KRG in anticipo per il petrolio, attraverso le cosiddette offerte” pre-pay ‘, contribuendo a colmare le lacune di bilancio di Erbil». In effetti quando il governo autonomo del Kurdistan irakeno ha cercato un esperto che lo aiutasse ad aggirare i controlli di Baghdad, ha scelto «Murtaza Lakhani, che ha lavorato per Glencore in Iraq negli anni 2000, per aiutarla nella ricerca di navi».

Vista l’intricata rete di complicità ed interessi internazionale che permette di esportare il greggio 
illegale dal Kurdistan irakeno in Israele e in Europa, è probabile che il petrolio dello Stato Islamico Daesh a basso costo sia gestito e spacciato dalla stessa rete di agenzie, governi e trafficanti che di giorno piangono per i morti del terrorismo e di notte organizzano il traffico del petrolio che alimenta le casse delle milizie nere del Daesh e dei loro volenterosi carnefici all’estero.

"The oil is sold within a day or two to a number of private companies, while the majority goes to an Italian refinery owned by one of the largest shareholders in an Italian football club [name removed] where the oil is refined and used locally," - See more at: http://www.alaraby.co.uk/english/features/2015/11/26/raqqas-rockefellers-how-islamic-state-oil-flows-to-israel/#sthash.QXmFYgRE.dpuf
"The oil is sold within a day or two to a number of private companies, while the majority goes to an Italian refinery owned by one of the largest shareholders in an Italian football club [name removed] where the oil is refined and used locally," - See more at: http://www.alaraby.co.uk/english/features/2015/11/26/raqqas-rockefellers-how-islamic-state-oil-flows-to-israel/#sthash.QXmFYgRE.dpuf
"The oil is sold within a day or two to a number of private companies, while the majority goes to an Italian refinery owned by one of the largest shareholders in an Italian football club [name removed] where the oil is refined and used locally," - See more at: http://www.alaraby.co.uk/english/features/2015/11/26/raqqas-rockefellers-how-islamic-state-oil-flows-to-israel/#sthash.QXmFYgRE.dpu
Raqqa's Rockefellers: How Islamic State oil flows to Israel - See more at: http://www.alaraby.co.uk/english/features/2015/11/26/raqqas-rockefellers-how-islamic-state-oil-flows-to-israel/#sthash.QXmFYgRE.dpuf

Chi compra il petrolio dell’Isis? La Turchia, Israele (e anche noi)

Aggiunto da Francesco Meneguzzo il 29 novembre 2015.

Ceyhan, Turchia, 29 nov – Nonostante siano in molti, da oltre un anno, in corrispondenza della allora inarrestabile espansione del Califfato islamico noto come Isis, a chiedersi su quali fonti – ovviamente illegali – di finanziamento potessero contare i tagliagole, soltanto l’abbattimento del jet russo da parte dei caccia turchi, in quello che può essere considerato un vero e proprio agguato, ha reso più palese quello che molti sapevano o intuivano.
Prevedibilmente, il primo a esprimersi senza peli sulla lingua è stato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, parlando del “coinvolgimento della Turchia nel commercio illegale di petrolio da parte dell’Isis, che è trasportato attraverso l’area in cui l’aereo russo è stato abbattuto, e nelle infrastrutture, armi, depositi di munizioni e centri di controllo dei terroristi, pure localizzati nella stessa area”.
Un atto d’accusa molto diretto, rilanciato dall’ex Generale francese Dominique Trinquand, secondo il quale “la Turchia non sta combattendo l’Isis oppure lo fa molto poco, e non contrasta diversi tipi di contrabbando che avvengono ai suoi confini, come petrolio, fosfati, cotone e perfino persone”.
Concentrandoci sul petrolio, che l’Isis esporta, o forse esportava, al ritmo di circa 45mila barili al giorno, per un controvalore a prezzi di mercato di circa 1,8 milioni di dollari (oltre 50 milioni al mese, circa 600 milioni all’anno), ovviamente quasi tutti in conto utili dato che i campi di estrazione sono stati tutti occupati mentre erano già stati sviluppati.
Messo in maniera semplice, il problema è che il commercio illegale di questo petrolio, per poter esistere, deve prevedere almeno una linea di trasporto sicura, un porto di imbarco, navi che lo trasportino e anche una sorta di pulizia legale che metta al riparo gli acquirenti dall’accusa di ricettazione.
Premesso che la verità in questi casi di traffici illeciti non sarà probabilmente mai definitiva, tanto più quanto più grande e scottante è il traffico stesso, il quadro che si va dipingendo è tra i più allucinanti che si potesse immaginare, superando per infamia perfino lo scellerato saccheggio della Siria già illustrato su queste colonne.
Molto in sintesi, la ricostruzione che emerge è la seguente: i convogli di camion carichi di petrolio partono dal territorio controllato dall’Isis, passano direttamente in Turchia fino a raggiungere il grande porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, dove il greggio dei tagliagole si confonde tra gli altri con quello pure illegale dei Curdi e viene caricato da almeno tre compiacenti compagnie di trasporto marittimo, con navi in parte battenti bandiera maltese, fino a raggiungere prevalentemente il porto israeliano di Ashkelon. Da notare che Israele soddisfa fino al 75% del proprio fabbisogno petrolifero per mezzo del greggio curdo.
Raqqa-oil
Ricostruzione del percorso del petrolio dell’Isis da parte del giornale qatariota al-Araby, basato a Londra: da Raqqa, capitale del Califfato, fino in Israele

Qui, in Israele appunto, l’oro nero viene solo in parte raffinato ma soprattutto riceve una patente di legalità, quindi prende la via dell’Europa, tra cui spiccano alcune raffinerie italiane.
Partendo dalla fine, secondo il giornale Al-Araby al-Jadeed, di proprietà di un gruppo mediatico del Qatar, che cita un anonimo “dirigente europeo presso una compagnia petrolifera internazionale che ha incontrato al-Araby in una capitale del Golfo”, in Israele “il petrolio viene raffinato solo una o due volte, perché non possiede raffinerie avanzate”, dopo di che viene “esportato a paesi del Mediterraneo, dove assume uno stato di semi-legittimità, per un prezzo tra 30 e 35 dollari al barile” (inferiore, quindi, rispetto al prezzo di mercato che sta tra 40 e 45 dollari).
“Il petrolio – sempre secondo il giornale arabo – è venduto entro un paio di giorni a un certo numero di compagnie provate, mentre la maggior parte va a una raffineria italiana posseduta da uno dei più grandi azionisti di un club calcistico italiano, dove il petrolio è [ulteriormente] raffinato e usato localmente”.
Il nome del magnate petrolifero italiano è omesso, ma i dettagli sopra esposti – sulla cui veridicità non è possibile esprimersi – ne consentiranno una facilissima identificazione.
Sempre secondo l’anonima gola profonda che ha rivelato questa storia incredibile al quotidiano londinese, “Israele è diventato in un modo o nell’altro il principale agente di mercato del petrolio dell’Isis. Senza di loro [gli israeliani, ndr], la maggior parte del greggio estratto dall’Isis sarebbe rimasto tra Iraq, Siria e Turchia. Nemmeno le tre compagnie di trasporto marittimo avrebbero ricevuto il petrolio se non avessero avuto un compratore in Israele”.
Secondo questo personaggio, la maggior parte dei paesi evitano di trattare questo tipo di petrolio di contrabbando, a causa delle implicazioni legali e della guerra contro lo Stato islamico. Per fortuna – si fa per dire – Turchia e Israele, e alla fine perfino l’Italia, darebbero una mano decisiva a imbastire il traffico, secondo queste rivelazioni.
Tornando alla prima fase del business criminale, la soluzione del trasporto dai campi di estrazione occupati dall’Isis fin dalla primavera 2014 fino al porto turco di Ceyhan appare ormai consolidata, come riportato da un rigoroso studio scientifico dell’Università britannica di Greenwich, in cui sono evidenziate perfino le relazioni tra i prezzi del trasporto marittimo e le conquiste dei campi petroliferi da parte del Califfato.
Chi sono allora gli intermediari e facilitatori di un tale criminale meccanismo?
È a questo punto che emergerebbe il coinvolgimento diretto della famiglia del presidente turco Erdogan e in particolare, ma non solo, di suo figlio Bilal.
Necmettin Bilal Erdogan, nato il 23 aprile 1980, è il terzo figlio di Recep Tayyip Erdogan, attualmente presidente della Turchia.
Dopo gli studi compiuti in Turchia, nel 1999 questi si sposta negli Usa, dove ottiene nel 2004 anche un master dalla John F. Kennedy School of Government alla Harvard University. Dopo di che, ha lavorato alla Banca Mondiale fino a tornare in patria nel 2006 per avviare il proprio business.
Oggi, Bilal Erdogan è uno dei tre proprietari, in ugual misura, della compagnia di traporto marittimo “BMZ Group Denizcilik”, oltre che di altre simili imprese.
In una intervista concessa al New Eastern Outlook, ancora lo scorso agosto, Gürsel Tekin, vice-presidente del Partito Repubblicano della Turchia (CHP), all’opposizione, dichiarava che “il Presidente Erdogan sostiene che secondo le convenzioni sul trasporto internazionale non sussiste alcuna infrazione legale connessa all’attività di suo figlio Bilal, e che questi sta conducendo un business normale con le compagnie marittime registrate in Giappone, ma in effetti Bilal Erdogan è immerso fino al collo nella complicità col terrorismo. Tuttavia, finché suo padre sarà in carica, egli rimane immune da qualsiasi procedimento giudiziario”.
Lo stesso esponente politico turco, Tekin, aggiunge poi che la compagnia marittima BMZ di Bilal Erdogan, che effettua i trasporti per conto dell’Isis, è “un affare di famiglia e i parenti stretti del presidente Erdogan posseggono quote nella BMZ, inoltre i medesimi hanno distratto fondi pubblici e ottenuto prestiti illeciti dalle banche turche”.
Pur sospendendo il giudizio sulla veridicità di tutto questo, la tentazione di approfittare dell’opportunità offerta dal petrolio ceduto dall’Isis a basso presso (si parla di 20 dollari al barile, meno della metà del prezzo di mercato), da far fluire attraverso la Turchia fino a nascondersi dietro i molto maggiori volumi di quello curdo sottratto al governo centrale di Bagdad nonostante gli accordi intercorsi tra questo e il governo regionale del Kurdistan, potrebbe essere stata pressoché irresistibile per l’ambizioso clan Erdogan. Tanto più che secondo altre fonti, la compagnia che ottenne ancora nel 2011 e sempre dal governo Erdogan la licenza esclusiva per il trasporto e il commercio del petrolio curdo è diretta dal genero dell’attuale autocrate di Ankara, Berat Albayrak, mentre secondo parecchi ufficiali curdi avrebbero confermato che Ahmet Calik, un uomo d’affari molto vicino al clan Erdogan, ha vinto il contratto per il trasporto del petrolio curdo via terra, cioè sui camion, per e attraverso la Turchia.
Misteri della politica e degli affari: mentre nel paese anatolico i curdi vengono discriminati, perseguitati e all’occorrenza massacrati, i legami tra il governo turco e quello regionale curdo in Iraq non sono mai stati tanto saldi.
Bilal
Fotografie che ritrarrebbero il figlio del presidente turco, Bilal Erdogan, insieme a un leader dell’Isis durante una cena a Istanbul

Da notare anche che, secondo un’altra fonte, mentre Bilal avrebbe acquistato nuove imbarcazioni per decine di milioni di dollari, un altro figlio di Erdogan, Burak, possiede egli stesso una flotta di navi da trasporto che fanno la spola tra Turchia e il porto israeliano di Ashdod.
Rimandando a quella che appare forse la più completa ed equilibrata rappresentazione di questa intricatissima situazione per un approfondimento, rimane da segnalare infine che i media russi hanno rilanciato alcune fotografie circolate sui social turchi, che ritrarrebbero Bilal Erdogan a cena in un ristorante di Istanbul con un presunto leader dell’Isis, cui sarebbe imputata la partecipazione a massacri nelle città siriane di Homs e Rojava, suggerendo nuovamente il coinvolgimento diretto del figlio del presidente turco nel mercato nero del petrolio dei tagliagole.
Francesco Meneguzzo

Il petrolio dell’Isis? Si “nasconde” tra quello curdo-iracheno e Turchia, Israele e Malta forse sanno qualcosa. Ma pare che anche in Italia...

Di Mauro Bottarelli , il

Blood&Oil

Al di là della loro efficacia reale, i raid russi contro le carovane di autocisterne dell’Isis, che trasportano petrolio del Kurdistan iracheno e dalla Siria verso la Turchia per essere vendute, hanno portato alla luce una realtà incontrovertibile: quella catena di fornitura petrolifera non solo è nota a tutti ma, per funzionare come ha fatto e come fa, gode di appoggi e interessi ad altissimo livello. Spesso, da parte di insospettabili. 


Turkey_Isis9Prima di entrare nei dettagli operativi, è meglio mettere in prospettiva storica e geografica. A confermare in tempi non sospetti che esisteva una tratta parallela del petrolio, fu ne il ministro per le Risorse naturali del Kurdistan, Ashti Hawrami, con queste parole: “Effettivamente, siamo stati discriminati per molto tempo a livello finanziario. Per questo, all’inizio del 2014, quando per l’ennesima volta non abbiamo ricevuto un budget di spesa, abbiamo deciso di cominciare a pensare a una vendita indipendente di petrolio”. Due fatti: il Kurdistan iracheno ha come capitale Erbil e come entità il Kurdish Regional Government, cui però Baghdad non riconosce un budget, né di fatto una sovranità piena. 
Secondo, questa cartina mostra chiaramente da dove prenda il petrolio l’Isis prima di rivenderlo in Turchia.
Bene, nel giugno dello scorso anno, cosa stesse accedendo si palesò con maggiore chiarezza, quando la nave da trasporto SCF Altai arrivò nel porto israeliano di Ashkelon, dove scaricò il primo carico di petrolio della pipeline curda. All’epoca, la Reuters notò come “la nuova rotta dell’export verso il porto turco di Ceyhan, disegnata per bypassare il sistema di pipeline federali di Baghdad, ha creato dure dispute sulla vendita di petrolio proprio tra il governo centrale iracheno e i curdi”. Insomma, i tanto odiati curdi – il cui avvocato è stato ucciso sabato scorso a colpi di pistola nelle strade di Dyarbakir – non solo estraggono petrolio a livello indipendente ma usano il nemico turco come tratta per bypassare Baghdad e arrivare in Israele via tanker.


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Una settimana prima dell’operazione di scarico in Israele, la SCF Altai ricevette il petrolio curdo attraverso un trasferimento da nave a nave dalla The United Emblem a largo delle coste di Malta: la nave caricò il greggio proprio a Ceyhan, la città turca dove la pipeline connette il porto al Kurdistan, come ci mostra la cartina.
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Di fatto, i curdi operano in contestazione di un accordo con il governo di Baghdad, in base al quale a Erbil spettano il 17% delle entrate fiscali dal petrolio iracheno e, in cambio, il governo curdo garantisce 550mila barili al giorno alla SOMO, l’azienda energetica statale irachena. Subito dopo l’accordo, Baghdad accusò i curdi di non rispettare i patti e ridusse il budget a loro destinato a livelli frazionali nei primi cinque mesi del 2014.


Chi invece opera per business è qualcun’altro. E nel silenzio complice di molti, visto che non appena Vladimir Putin, parlando al G20 di Antalya a inizio mese, parlò di Paesi che finanziano l’Isis ma anche di palese traffico di petrolio che ingrassa Daesh, lo stesso giorno – come per miracolo dopo un anno di dormiente inattività – i jet statunitensi colpirono 116 cisterne carice di petrolio e nelle due settimane successive, aviazione Usa e russa ne vaporizzarono nel complesso 1300. Ora, guardate questa cartina,
Turkey_Isis
la quale ci mostra come la catena di fornitura petrolifera sia molto complessa, partendo da Sanliura, Urfa, Hakkari, Siirt, Batman, Osmaniya, Gaziantep, Sirnak, Adana, Kahramarmaras, Adiyaman e Mardin, con la stringa di hub operativi che finisce ad Adana, dove ha appunto sede il porto per i container di spedizione petrolifera di Ceyhan.
Una città di 110mila abitanti ma soprattutto hub per il trasporto per il petrolio e il gas di Medio Oriente, l’Asia centrale e Russia. Inoltre, il porto ha anche un attracco per i cargo e un terminal petrolifero, gestito dall’azienda di Stato turca Botas International Limited (BIL) e con un capacità di export annuale di 50 milioni di tonnellate: la quantità di greggio esportato dal Ceyhan supera il milione di barili al giorno. Eppure, stando a evidenze militari e scientifiche, l’Isis non è mai stato in grado di trattare più di 45mila barili al giorno. Come si spiega allora?
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Una spiegazione prova a darcela lo studio di George Kiourktsoglou e di Alec D Coutroubis e questa tabella,
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relativa al costo del noleggio charter lungo le rotte più importanti per il commercio di petrolio. In base ai Baltic Dirty Tanker Indices, la rotta di nostro riferimento per il caso in questione è quella che originariamente andava da Baniyas in Siria a Laveras in Francia, denominata TD 11 ma che dal settembre 2011, a causa della guerra civile siriana, è stata ridenominata TD 19 e aveva come unica differenza il porto di Ceyhan al posto di quello di Baniyas. Come vedete dalla tabella, tra il luglio 2014 e il febbraio 2015, ci sono tre picchi che non hanno corrispondenze con le altre rotte commerciali mediorientali ma riguardano solo la TD 19.



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Il primo si sviluppa dal 10 luglio 2014 fino al 21 e corrisponde alla caduta nella mani dell’Isis del più grande giacimento petrolifero siriano, AlOmar. Il secondo tra la fine di ottobre e la fine di novembre 2014, in corrispondenza con i combattimenti tra Isis e forze regolari siriane per il controllo dei giacimenti di gas di Jhar e Mahr e della compagnia del gas Hayyan nella provincia di Homs. Il terzo picco è avvenuto tra la fine di gennaio e il 10 di febbraio di quest’anno ed è relativa ad attacchi aerei nella zona di Hawija, a est di Kirkuk.
Insomma, c’è un nesso invisibile tra operatività a Ceyhan e Isis, reso evidente dai costi di noleggio nei tankers, i quali vedono picchi sempre a ridossi delle attività terroristiche dell’Isis sul terreno. Insomma, ogni volta che Daesh sta combattendo in un’area vicino a pozzi o giacimenti di petrolio, stranamente gli export da Ceyhan conoscono un picco.


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Ma torniamo un attimo al numero di prima, ovvero ai massimi 45mila barili che l’Isis riesce a trattare al giorno, a fronte del milioni di barili trattati a Ceyhan: il petrolio dei terroristi, in quel mare di greggio, si confonde e diventa, di fatto, invisibile. E qui la cosa si fa interessante, perché questa mappa
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ci mostra come il governo di Erbil nasconda i suoi carichi di greggio, di fatto illegali per il governo di Baghdad: essendo molti acquirenti grandi multinazionali come Exxon Mobile (la quale ha in essere sei contratti con il governo regionale curdo-iracheno, come mostra la cartina a fine periodo) e BP che hanno contratti in essere con Baghdad, per evitare sgradevoli passi falsi, alcuni compratori esano appunti i tanker del porto israeliano di Ashkelon, dove il greggio viene caricati per essere rivenduto più tardi e compratori europei. In alternativa, il petrolio curdo viene venduto attraverso trasferimento offshore a largo di Malta, garantendo ai compratori di non finire sotto gli occhi della SOMO, l’azienda statale irachena.

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Ma quella cartina ci mostra anche altro, ovvero che come scriveva il Financial Times, i trasferimenti da nave a nave al largo di Malta servono per portare il greggio curdo in Israele. Ecco il quotidiano della City la scorsa settimana: “Le raffinerie israeliane e le compagnie petrolifere hanno importato più di 19 milioni di barili di petrolio curdo tra l’inizio di maggio e l’11 di agosto, stando a dati delle società di tracciatura delle spedizioni. Si tratta dell’equivalente del 77% della domanda media israeliana, la quale è di circa 240mila barili al giorno. Più di un terzo del greggio proveniente dal Nord dell’Iraq e che è stato spedito dal porto turco di Cehyan in quel periodo è finito in Israele”.

Insomma, in quale contesto ci stiamo muovendo? In uno che vede il petrolio curdo già tecnicamente illegale alla vendita ma a cui la Turchia è ben felice di facilitare il passaggio verso acquirenti stranieri via Ceyhan: quale miglior modo per l’Isis di far passare il proprio petrolio rubato senza destare sospetti, se non utilizzando un porto che è già in odore di traffici non proprio trasparenti e per volumi decisamente alti? La Al-Araby al-Jadeed, un media gruppo di proprietà della Qatari Fadaat Media, la scorsa settimana rendeva noto di aver ricevuto alcune soffiate da un colonnello dei servizi iracheni a cui era stato garantito l’anonimato. Ecco le sue parole: “Una volta arrivato in Turchia, il petrolio dell’Isis è indistinguibile da quello venduto dal governo regionale curdo, visto che entrambi sono venduti come illegali o senza licenza. Di fatto, chi compra petrolio curdo, compra anche quello che Daesh vende per finanziarsi”. Sarà vero?
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Questa tabella,

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ci mostra le spedizioni di petrolio di parecchie aziende del settore (non nominate dal giornale) dai porti turchi di Ceyhan, Mersin e Dortyol verso Israele. Ora vi ripropongo la tabella di prima,
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dalla quale si desume che il petrolio vada direttamente da Ceyhan ad Ashdod in Israele. Ma verrebbe da chiedersi se per caso, per essere “ripulito” e reso invisibile nella sua origine, il petrolio dell’Isis non passi attraverso la connection maltese tanto utile al petrolio curdo, la quale finisce poi comunque in Israele. Questo perché il figlio del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, Bilal (a destra nella foto a fine periodo), casualmente è proprietario di un’azienda di spedizioni maltese, la BMZ Group, la quale negli ultimi due mesi ha comprato altrettanti tankers per un costo totale di 36 milioni di dollari, registrati alla Oil Transportation & Shipping Company, un’affiliata maltese nel BMZ Group, lo scorso mese di ottobre.

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Queste due lunghe tabelle ci mostrano i dati portuali da Ceyhan e Ashdod, con i vascelli per il trasporto di petrolio battenti bandiera maltese evidenziati.

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Insomma, la Turchia di fatto facilita e non poco il traffico da 400 milioni l’anno dell’Isis ma stando a un funzionario europeo che opera per una compagnia petrolifera internazionale e intervistato sotto anonimato da Al-Araby al-Jadeed, “il petrolio viene raffinato solo una o due volte in Israele, a causa della mancanza di raffinerie avanzate. Ma questo viene poi esportato presso nazioni del Mediterraneo – dove il petrolio guadagna uno stato semi-legittimo – a 30-35 dollari al barile”.


E ora, tenetevi forte: “Il petrolio è venduto entro un giorno a una serie di gruppi privati, mentre la maggior parte va a una raffineria italiana di proprietà di una grande azionista di una squadra di calcio italiana, dove il petrolio è raffinato e usato in loco”. Azionista di una squadra di calcio italiana con interessi nel petrolio: ammesso che sia vero quanto riportato da Al-Araby al-Jadeed, non mi viene in mente nessuno.. 

E per finire, la chicca: “Israele è diventato in un modo o nell’altro il principale marketer del petrolio dell’Isis, visto che senza il suo intervento quel greggio rimarrebbe tra Iraq, Siria e Turchia. Anche le tre aziende non riceverebbero il petrolio se non avessero un buyer in Israele”. La scorsa settimana, proprio nell’articolo di lunedì, mi chiedevo poi perché nessuno si ponga una delle domande più importanti: ovvero, chi sono i “middlemen”, gli intermediari di questo traffico di petrolio di fatto illegale e sottocosto?
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La Reuters, quindi fonte più che autorevole, parlava in questi termini del commercio illecito di petrolio curdo: “Fonti di mercato hanno riferito che parecchie trading house, incluse Trafigura e Vitol, hanno trattato petrolio curdo. Sia Trafigura che Vitol hanno declinato di commentare il loro ruolo nelle vendite di petrolio”. E ancora, il Financial Times notava che “sia Vitol che Trafigura hanno pagato in anticipo il governo regionale curdo per il petrolio, utilizzado i cosiddetti accordi pre-pay, aiutando così Erbil ha tamponare i sui gap di budget”. Di più, quando il Kurdistan stava cercando un advisor per assistenza nel tentativo di circonvenire Baghdad, il governo regionale scelse Murtaza Lakhani, che aveva lavorato per Glancore in Iraq negli anni Duemila: “Sapeva esattamente chi poteva e chi non poteva fare affari con noi. Ci ha aperto le porte e identificato aziende di spedizione che volevano lavorare con noi”, concluse Ashti Hawrami, il già citato ministro per le Risorse naturali del Kurdistan iracheno.

Insomma, a quali conclusioni giungere? Semplice, al netto di tutto questo e delle possibili smentite da parte di chi è chiamato in causa, certe cifre e certe coincidenze parlano da sole. Per un po’ di sconto su un barile già ai prezzi minimi da anni, stiamo pagando le armi che l’Isis usa per fare la guerra, principalmente a civili iracheni, siriani e curdi. Complimenti, davvero un esempio di superiorità occidentale. Ma, forse, il modo migliore per congedarmi da voi, visto che ieri si è aperta la conferenza sul clima di Parigi, è quello di riportare le parole dell’ex vice-direttore della Cia, Michael Morell, nel corso di un’intervista al giornalista della PBS, Charlie Rose, sul perché gli Usa non abbiano attaccato le strutture petrolifere dell’Isis. Eccole e giudicate pure da soli: “Non abbiamo colpito gli impianti petroliferi sotto il controllo dell’Isis perché non volevamo creare un danno ambientale e distruggere quelle infrastrutture”.

P.S. Scusate, stavo scordando la cosa più importante: poche ore fa il vertice tra Ue e Turchia tenutosi a Bruxelles ha sbloccato 3 miliardi per aiutare Ankara nella gestione dei profughi – ovvero, paghiamo per farci invadere meglio -, ha sancito un netto ammorbidimento del regime dei visti per i cittadini turchi e, se non fosse stato per il veto di Cipro, avrebbe spalancato ufficialmente le porte, accelerando l’iter legato al cosiddetto Articolo 17, alla Turchia per l’ingresso nell’Ue. Non so voi ma io sono nauseato. 

Sono Mauro Bottarelli, Seguimi su Twitter! Follow @maurobottarelli
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