mercoledì 9 dicembre 2015

Indovina, indovinello? Chi raffina il petrolio dell'islamico staterello?

Cercando in rete notizie sul grande mistero di chi sia a foraggiare il califfo del daesh mediante l'acquisto del petrolio estratto dai pozzi in Siria e in Iraq, ho trovato un interessante reportage del sito al-Araby, che viene ripreso da diversi siti italiani e che si intitola Raqqa's Rockfellers: How Islamic State oil flows to Israel.

L'articolo spiega, citando diverse fonti, chi e come il petrolio dell'Isis arrivi in Israele, ma riserva una sopresina che riguarda noi italiani.

Ecco il passaggio che mi ha fatto letteralmente  saltare sulla sedia: "The oil is sold within a day or two to a number of private companies, while the majority goes to an italian refinery owned of the largest shareholders in an italian football club [name removed] where the oil is refined and used locally".

Mi chiedo chi possa essere... 

Ecco alcuni siti in italiano che riportano la notizia

Li copio qui di seguito, non si sa mai che spariscano...

Israele comprerebbe il greggio contrabbandato dal Daesh e dai kurdi irakeni attraverso la Turchia

Il petrolio dello Stato Islamico finisce in Italia passando per Israele?

L’intricata rete di complicità e interessi che finanzia il Daesh e i suoi volonterosi carnefici
[1 dicembre 2015]
Israele è diventato il principale acquirente di petrolio dal territorio controllato dallo Stato Islamico/Daesh (Isis), almeno secondo quanto hanno affermato per primi i kurdi siriani del Rojava, in una tesi poi rilanciata ad agosto in un’inchiesta del Financial Times e ora ripresa, dopo le nuove accusa di Vladimir Putin, da Globes Israel business news (che a sua volta riprende a sua volta i rapporti del giornale qatariota al-Araby al-Jadeed). Secondo queste indagini, «contrabbandieri curdi e turchi trasportano il petrolio dal territorio controllato dall’Isis  in Siria e Iraq e lo vendono a  Israele (…) Si stima che circa 20.000 – 40.000 barili di petrolio vengono prodotti ogni giorno nel territorio controllato dall’Isis generando 1 -1,5 milioni di dollari di profitto giornaliero per l’organizzazione terroristica».

Il petrolio verrebbe estratto a Dir A-Zur in Siria e in due campi in Iraq e trasportato nella città curda di Zakhu in un triangolo di territorio incuneato tra Siria, Iraq e Turchia, i mediatori israeliani e turchi arrivano in questa terra di nessuno per concordare i prezzi, poi il greggio viene contrabbando nella città turca di Silop come proveniente dalla regione semi-indipendente kurda dell’Iraq e venduto a 15 – 18 al barile, mentre sul mercato legale WTI e Brent Crude attualmente valgono 41 e 45 dollari al barile. Secondo Globes Israel, il greggio del Daesh passa dalle mani del  «mediatore israeliano, un uomo di 50 anni con doppia cittadinanza greco-israeliana noto come Dr. Farid. Trasporta il petrolio attraverso diversi porti turchi e poi in altri porti, con Israele fra le principali destinazioni». Il Financial Times  scrive che Israele ottiene il 75% delle sue forniture di petrolio dal Kurdistan iracheno,  con il quale ha stretti rapporti fin dai tempi della guerriglia dei kurdi contro Saddam Hussein, e più di un terzo di queste  esportazioni passano attraverso il porto turco di Ceyhan, che viene descritto come un «potenziale gateway per il greggio di contrabbando dell’Isis».

Ma per l’Italia la rivelazione più inquietante arriva dall’inchiesta “Raqqa’s Rockefellers”, Bilal Erdogan, KRG Crude, And The Israel Connection”, pubblicata il 29 novembre da Zero Hedge a firma Tyler Durden, nella quale si legge: «Secondo un funzionario europeo di una compagnia petrolifera internazionale che ha incontrato al-Araby in una capitale del Golfo, Israele raffina il petrolio solo “una o due volte”, perché non ha raffinerie avanzate. Esporta il petrolio nei paesi mediterranei – nei quali il petrolio “guadagna uno stato di semi-legittima” – per $ 30 a $ 35 al barile. Il petrolio viene venduto entro un giorno o due a un certo numero di compagnie private, mentre la maggioranza va in una raffineria italiana di proprietà di uno dei maggiori azionisti di una società calcistica italiana [nome rimosso] dove il petrolio viene raffinato ed utilizzato localmente. Israele è, in un modo o nell’altro, diventato il principale commerciante di petrolio dell’Isis. Senza di loro [gli israeliani], la maggior parte del petrolio prodotto dall’Isis resterebbe in giro tra l’Iraq, Siria e Turchia. Anche le tre companies non avrebbero ricevuto il petrolio se non avessero un acquirente in Israele». Affermazioni pesanti, sulle quali sarebbe opportuno far indagare al più presto gli organi competenti.

Tutto, si afferma, comincia nel giugno del 2014, quando la petroliera SCF Altai attracca nel porto israeliano di Ashkelon per scaricare il primo carico di greggio del governo regionale kurdo irakeno (KRG) proveniente da un oleodotto che arriva al porto turco di Ceyhan, una pipeline progettata per bypassare le condotte del governo irakeno e non pagare le tasse a Bagdad. Una settimana prima, la SCF Altai aveva caricato greggio kurdo al largo di Malta con un trasferimento da nave a nave dalla The United Emblem, Anche la  The United Emblem aveva caricato il greggio all’oleodotto kurdo di  Ceyhan. Da quel momento i kurdi irakeni sembrano disposti a contrabbandare qualsiasi tipo di petrolio, anche quello dei nemici dello Stati Islamico, soprattutto verso il territorio degli storici alleati israeliani.

Dopo che all’’inizio di questo mese, Putin ha denunciato il traffico di petrolio al G20 in Turchia, anche gli USA hanno attaccato le colonne di camion che trasportano il petrolio del Daesh e, in due settimane, gli attacchi aerei di russi ed americani hanno vaporizzato 1.300 camion-cisterna che trasportavano il greggio dell’ISIS.  Nessuno riesce a capire perché gli USA ci abbiano messo così tanto ad attaccare questo contrabbando così vitale per lo Stato Islamico, Ma secondo uno studio di George Kiourktsoglou e Alec Coutroubis, che hanno analizzato le tariffe delle navi cisterna a Ceyhan collegandole ad eventi significativi legati al petrolio che coinvolgono  l’ISIS, «Sembra che ogni volta che lo Stato Islamico sta combattendo in prossimità di una zona che ospita le attività petrolifere, i 13 esportatori  da Ceyhan raggiungano tempestivamente il picco. Ciò può essere attribuito ad una spinta in più data al greggio contrabbando di petrolio, con l’obiettivo di generare subito ulteriori fondi, assolutamente necessari per la fornitura di munizioni ed equipaggiamenti militari».

Quindi il porto turco di  Ceyhan è quello dal quale viene trasportato il petrolio curdo, tecnicamente “illegale” per Baghdad, ma Kiourktsoglou e Coutroubis fanno notare che «Le quantità di greggio che vengono esportate dal terminal di Ceyhan superano la quota di un milione barili al giorno e, dato che l’ISIS non è mai stata in grado di commerciare ogni giorno più di 45.000 barili di petrolio, diventa evidente che l’individuazione di quantità simili di greggio di contrabbando non può avvenire attraverso metodi di stock-accounting». Questo significa che se il greggio del Daesh viene spedito da Ceyhan, potrebbe diventare facilmente “invisibile” all’interno dell’enorme quantità di petrolio che i kurdi irakeni nascondono a Bagdad.  Untraffico dal quale sembrano escluse le grandi multinazionali come Exxon Mobil e BP, che hanno miliardi di dollari di progetti congiunti con l’Iraq e che non vogliono certo metterli a rischio per contrabbandare greggio kurdo mischiato con quello dello Stato Islamico. Zero Hedge scrive che per questo «Alcuni acquirenti hanno petroliere ad Ashkelon, Israele, dove viene caricato in impianti di stoccaggio per essere rivenduti in seguito ad acquirenti in Europa. Il petrolio greggio curdo è stato venduto anche in mare aperto a Malta tramite trasferimenti da nave a nave aiutare mascherare gli acquirenti finali e proteggerli così dalle minacce dll’impresa statale irakena SOMO». Un traffico che utilizzerebbe addirittura petroliere “civetta” vuote per ingannare gli investigatori. Ma una cosa è certa, tra maggio ed agosto oltre un terzo di tutte le esportazioni di greggio dall’Iraq settentrionale è andato a finire in Israele, un Paese che il governo centrale Irakeno non riconosce, passando da Ceyhan, in Turchia, un Paese che ha dichiarato guerra ai kurdi del PKK e che li bombarda sia nel Kurdistan irakeno che nel Rojava in Siria.

Il petrolio dello Stato Islamico passa quindi da una porta di contrabbando aperta dai Kurdi irakeni in Turchia e un colonnello dei servizi segreti iracheni che sta indagando insieme agli americani sui finanziamenti del Daesh, ha spiegato ad al-Araby al-Jadeed  che «Dopo che il greggio viene estratto e caricato, le cisterne lasciano la provincia di Ninive per dirigersi a nord verso la città di Zakho, 88 km a nord di Mosul». Zakho è una città del Kurdistan iracheno, proprio al confine con la Turchia. «Dopo che i camion petroliferi dello Stato Islamico arrivano a Zakho – normalmente 70-100 di loro tutti insieme – sono scaricati dalle mafie del contrabbando di petrolio, un mix di curdi siriani e iracheni, oltre ad alcuni turchi e iraniani. Il responsabile della spedizione di petrolio vende il greggio  al miglior offerente». La concorrenza tra bande organizzate ha raggiunto il culmine, e l’assassinio di capi mafia è diventata un evento comune. Il miglior offerente paga subito in dollari contanti tra il 10 e il 25% del valore del greggio, il resto viene pagato dopo. I camionisti del Daesh consegnano i loro veicoli ad altri guidatori che lo trasportano con permessi e documenti turchi per di attraversare il confine. Una volta in Turchia, i camion raggiungono Silopi, dove il petrolio viene consegnato a al dottor Farid, alias zio Hajji Farid. «Una volta all’interno della Turchia, il petrolio è indistinguibile dal greggio venduto dal Governo regionale del Kurdistan – dice il colonnello irakeno -, in quanto sono entrambi venduti come “fonte sconosciuta” o petrolio  “illegale” “senza licenza”. Le compagnie che acquistano il petrolio KRG acquistano anche il petrolio di contrabbando dello Stato Islamico».

Quindi le strade del contrabbando passerebbero tutte dalla Turchia, per far arrivare il greggio del Daesh fino ai porti turchi di Mersin, Dortyol e Ceyhan e da qui in Israele, con una diramazione marina verso Malta e l’Europa, approdando – da quanto denuncia il giornale del Qatar – anche in Italia.

Ma la cosa che ha fatto probabilmente più innervosire il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è che Putin abbia confermato al G20, che si teneva proprio in Turchia, che il petrolio del Daesh e del KRG è gestito da intermediari che apparterrebbero alla ristretta cerchia del presidente turco. Secondo Tolga Tanis, corrispondente da Washington per il quotidiano turco  Hurriyet, la PowerTrans, l’impresa alla quale il governo turco ha dato l’esclusiva del trasporto del greggio kurdo, sarebbe gestita  in realtà dal figlio illegittimo di Erdogan, Berat Albayrak. Naturalmente Erdogan ha subito denunciato per diffamazione Tanis. Ma diversi funzionari kurdi iracheni hanno confermato che ad Ahmet Calik, un uomo d’affari con strettissimi legami con il clan Erdogan, era stato concesso l’appalto per trasportare petrolio curdo via terra con i camion in Turchia.

«In altre parole – scrive Durden – Erdogan  sta già trafficando greggio illecito dal KRG (con cui Ankara, tra l’altro, è in amicizia, nonostante il fatto che siano curdi) tramite un figlio illegittimo e in grandi quantità». Ma nel traffico, secondo il giornale turco Zaman e altre fonti russe, sarebbe coinvolto direttamente il figlio di Erdogan Bilal e forse anche l’altro figlio Burak che possiede una flotta di navi, una delle quali, la Safran 1, nel 2014 era ancorata nel porto israeliano di Ashdod. Inoltre sui social media circolano foto che mostrano una persona che somiglia molto a Bilal Erdogan insieme a quelli che vengono definiti  comandanti ISIS. I Turchi smentiscono, ma  i media russi sostengono che si tratta davvero di leader del Daesh che avrebbero partecipato a massacri in Siria, ad Homs, e nel Rojava liberato dai Kurdi progressisti siriani.

Ma la domanda più importante alla quale rispondere è: «Chi sono gli intermediari?» del greggio dello Stato Islamico mischiato a quello illecito della KRG? Diverse fonti individuano alcune grosse agenzia di trading occidentali e secondo la Reuters tra le agenzie che trattano il greggio della KRG ci sarebbero Trafigura e Vitol, ma « Sia Trafigura che Vitol si sono rifiutate di commentare il loro ruolo nella vendita del petrolio». Ma anche il Financial Times osserva che «Sia Vitol che Trafigura avevano pagato il KRG in anticipo per il petrolio, attraverso le cosiddette offerte” pre-pay ‘, contribuendo a colmare le lacune di bilancio di Erbil». In effetti quando il governo autonomo del Kurdistan irakeno ha cercato un esperto che lo aiutasse ad aggirare i controlli di Baghdad, ha scelto «Murtaza Lakhani, che ha lavorato per Glencore in Iraq negli anni 2000, per aiutarla nella ricerca di navi».

Vista l’intricata rete di complicità ed interessi internazionale che permette di esportare il greggio 
illegale dal Kurdistan irakeno in Israele e in Europa, è probabile che il petrolio dello Stato Islamico Daesh a basso costo sia gestito e spacciato dalla stessa rete di agenzie, governi e trafficanti che di giorno piangono per i morti del terrorismo e di notte organizzano il traffico del petrolio che alimenta le casse delle milizie nere del Daesh e dei loro volenterosi carnefici all’estero.

"The oil is sold within a day or two to a number of private companies, while the majority goes to an Italian refinery owned by one of the largest shareholders in an Italian football club [name removed] where the oil is refined and used locally," - See more at: http://www.alaraby.co.uk/english/features/2015/11/26/raqqas-rockefellers-how-islamic-state-oil-flows-to-israel/#sthash.QXmFYgRE.dpuf
"The oil is sold within a day or two to a number of private companies, while the majority goes to an Italian refinery owned by one of the largest shareholders in an Italian football club [name removed] where the oil is refined and used locally," - See more at: http://www.alaraby.co.uk/english/features/2015/11/26/raqqas-rockefellers-how-islamic-state-oil-flows-to-israel/#sthash.QXmFYgRE.dpuf
"The oil is sold within a day or two to a number of private companies, while the majority goes to an Italian refinery owned by one of the largest shareholders in an Italian football club [name removed] where the oil is refined and used locally," - See more at: http://www.alaraby.co.uk/english/features/2015/11/26/raqqas-rockefellers-how-islamic-state-oil-flows-to-israel/#sthash.QXmFYgRE.dpu
Raqqa's Rockefellers: How Islamic State oil flows to Israel - See more at: http://www.alaraby.co.uk/english/features/2015/11/26/raqqas-rockefellers-how-islamic-state-oil-flows-to-israel/#sthash.QXmFYgRE.dpuf

Chi compra il petrolio dell’Isis? La Turchia, Israele (e anche noi)

Aggiunto da Francesco Meneguzzo il 29 novembre 2015.

Ceyhan, Turchia, 29 nov – Nonostante siano in molti, da oltre un anno, in corrispondenza della allora inarrestabile espansione del Califfato islamico noto come Isis, a chiedersi su quali fonti – ovviamente illegali – di finanziamento potessero contare i tagliagole, soltanto l’abbattimento del jet russo da parte dei caccia turchi, in quello che può essere considerato un vero e proprio agguato, ha reso più palese quello che molti sapevano o intuivano.
Prevedibilmente, il primo a esprimersi senza peli sulla lingua è stato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, parlando del “coinvolgimento della Turchia nel commercio illegale di petrolio da parte dell’Isis, che è trasportato attraverso l’area in cui l’aereo russo è stato abbattuto, e nelle infrastrutture, armi, depositi di munizioni e centri di controllo dei terroristi, pure localizzati nella stessa area”.
Un atto d’accusa molto diretto, rilanciato dall’ex Generale francese Dominique Trinquand, secondo il quale “la Turchia non sta combattendo l’Isis oppure lo fa molto poco, e non contrasta diversi tipi di contrabbando che avvengono ai suoi confini, come petrolio, fosfati, cotone e perfino persone”.
Concentrandoci sul petrolio, che l’Isis esporta, o forse esportava, al ritmo di circa 45mila barili al giorno, per un controvalore a prezzi di mercato di circa 1,8 milioni di dollari (oltre 50 milioni al mese, circa 600 milioni all’anno), ovviamente quasi tutti in conto utili dato che i campi di estrazione sono stati tutti occupati mentre erano già stati sviluppati.
Messo in maniera semplice, il problema è che il commercio illegale di questo petrolio, per poter esistere, deve prevedere almeno una linea di trasporto sicura, un porto di imbarco, navi che lo trasportino e anche una sorta di pulizia legale che metta al riparo gli acquirenti dall’accusa di ricettazione.
Premesso che la verità in questi casi di traffici illeciti non sarà probabilmente mai definitiva, tanto più quanto più grande e scottante è il traffico stesso, il quadro che si va dipingendo è tra i più allucinanti che si potesse immaginare, superando per infamia perfino lo scellerato saccheggio della Siria già illustrato su queste colonne.
Molto in sintesi, la ricostruzione che emerge è la seguente: i convogli di camion carichi di petrolio partono dal territorio controllato dall’Isis, passano direttamente in Turchia fino a raggiungere il grande porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo, dove il greggio dei tagliagole si confonde tra gli altri con quello pure illegale dei Curdi e viene caricato da almeno tre compiacenti compagnie di trasporto marittimo, con navi in parte battenti bandiera maltese, fino a raggiungere prevalentemente il porto israeliano di Ashkelon. Da notare che Israele soddisfa fino al 75% del proprio fabbisogno petrolifero per mezzo del greggio curdo.
Raqqa-oil
Ricostruzione del percorso del petrolio dell’Isis da parte del giornale qatariota al-Araby, basato a Londra: da Raqqa, capitale del Califfato, fino in Israele

Qui, in Israele appunto, l’oro nero viene solo in parte raffinato ma soprattutto riceve una patente di legalità, quindi prende la via dell’Europa, tra cui spiccano alcune raffinerie italiane.
Partendo dalla fine, secondo il giornale Al-Araby al-Jadeed, di proprietà di un gruppo mediatico del Qatar, che cita un anonimo “dirigente europeo presso una compagnia petrolifera internazionale che ha incontrato al-Araby in una capitale del Golfo”, in Israele “il petrolio viene raffinato solo una o due volte, perché non possiede raffinerie avanzate”, dopo di che viene “esportato a paesi del Mediterraneo, dove assume uno stato di semi-legittimità, per un prezzo tra 30 e 35 dollari al barile” (inferiore, quindi, rispetto al prezzo di mercato che sta tra 40 e 45 dollari).
“Il petrolio – sempre secondo il giornale arabo – è venduto entro un paio di giorni a un certo numero di compagnie provate, mentre la maggior parte va a una raffineria italiana posseduta da uno dei più grandi azionisti di un club calcistico italiano, dove il petrolio è [ulteriormente] raffinato e usato localmente”.
Il nome del magnate petrolifero italiano è omesso, ma i dettagli sopra esposti – sulla cui veridicità non è possibile esprimersi – ne consentiranno una facilissima identificazione.
Sempre secondo l’anonima gola profonda che ha rivelato questa storia incredibile al quotidiano londinese, “Israele è diventato in un modo o nell’altro il principale agente di mercato del petrolio dell’Isis. Senza di loro [gli israeliani, ndr], la maggior parte del greggio estratto dall’Isis sarebbe rimasto tra Iraq, Siria e Turchia. Nemmeno le tre compagnie di trasporto marittimo avrebbero ricevuto il petrolio se non avessero avuto un compratore in Israele”.
Secondo questo personaggio, la maggior parte dei paesi evitano di trattare questo tipo di petrolio di contrabbando, a causa delle implicazioni legali e della guerra contro lo Stato islamico. Per fortuna – si fa per dire – Turchia e Israele, e alla fine perfino l’Italia, darebbero una mano decisiva a imbastire il traffico, secondo queste rivelazioni.
Tornando alla prima fase del business criminale, la soluzione del trasporto dai campi di estrazione occupati dall’Isis fin dalla primavera 2014 fino al porto turco di Ceyhan appare ormai consolidata, come riportato da un rigoroso studio scientifico dell’Università britannica di Greenwich, in cui sono evidenziate perfino le relazioni tra i prezzi del trasporto marittimo e le conquiste dei campi petroliferi da parte del Califfato.
Chi sono allora gli intermediari e facilitatori di un tale criminale meccanismo?
È a questo punto che emergerebbe il coinvolgimento diretto della famiglia del presidente turco Erdogan e in particolare, ma non solo, di suo figlio Bilal.
Necmettin Bilal Erdogan, nato il 23 aprile 1980, è il terzo figlio di Recep Tayyip Erdogan, attualmente presidente della Turchia.
Dopo gli studi compiuti in Turchia, nel 1999 questi si sposta negli Usa, dove ottiene nel 2004 anche un master dalla John F. Kennedy School of Government alla Harvard University. Dopo di che, ha lavorato alla Banca Mondiale fino a tornare in patria nel 2006 per avviare il proprio business.
Oggi, Bilal Erdogan è uno dei tre proprietari, in ugual misura, della compagnia di traporto marittimo “BMZ Group Denizcilik”, oltre che di altre simili imprese.
In una intervista concessa al New Eastern Outlook, ancora lo scorso agosto, Gürsel Tekin, vice-presidente del Partito Repubblicano della Turchia (CHP), all’opposizione, dichiarava che “il Presidente Erdogan sostiene che secondo le convenzioni sul trasporto internazionale non sussiste alcuna infrazione legale connessa all’attività di suo figlio Bilal, e che questi sta conducendo un business normale con le compagnie marittime registrate in Giappone, ma in effetti Bilal Erdogan è immerso fino al collo nella complicità col terrorismo. Tuttavia, finché suo padre sarà in carica, egli rimane immune da qualsiasi procedimento giudiziario”.
Lo stesso esponente politico turco, Tekin, aggiunge poi che la compagnia marittima BMZ di Bilal Erdogan, che effettua i trasporti per conto dell’Isis, è “un affare di famiglia e i parenti stretti del presidente Erdogan posseggono quote nella BMZ, inoltre i medesimi hanno distratto fondi pubblici e ottenuto prestiti illeciti dalle banche turche”.
Pur sospendendo il giudizio sulla veridicità di tutto questo, la tentazione di approfittare dell’opportunità offerta dal petrolio ceduto dall’Isis a basso presso (si parla di 20 dollari al barile, meno della metà del prezzo di mercato), da far fluire attraverso la Turchia fino a nascondersi dietro i molto maggiori volumi di quello curdo sottratto al governo centrale di Bagdad nonostante gli accordi intercorsi tra questo e il governo regionale del Kurdistan, potrebbe essere stata pressoché irresistibile per l’ambizioso clan Erdogan. Tanto più che secondo altre fonti, la compagnia che ottenne ancora nel 2011 e sempre dal governo Erdogan la licenza esclusiva per il trasporto e il commercio del petrolio curdo è diretta dal genero dell’attuale autocrate di Ankara, Berat Albayrak, mentre secondo parecchi ufficiali curdi avrebbero confermato che Ahmet Calik, un uomo d’affari molto vicino al clan Erdogan, ha vinto il contratto per il trasporto del petrolio curdo via terra, cioè sui camion, per e attraverso la Turchia.
Misteri della politica e degli affari: mentre nel paese anatolico i curdi vengono discriminati, perseguitati e all’occorrenza massacrati, i legami tra il governo turco e quello regionale curdo in Iraq non sono mai stati tanto saldi.
Bilal
Fotografie che ritrarrebbero il figlio del presidente turco, Bilal Erdogan, insieme a un leader dell’Isis durante una cena a Istanbul

Da notare anche che, secondo un’altra fonte, mentre Bilal avrebbe acquistato nuove imbarcazioni per decine di milioni di dollari, un altro figlio di Erdogan, Burak, possiede egli stesso una flotta di navi da trasporto che fanno la spola tra Turchia e il porto israeliano di Ashdod.
Rimandando a quella che appare forse la più completa ed equilibrata rappresentazione di questa intricatissima situazione per un approfondimento, rimane da segnalare infine che i media russi hanno rilanciato alcune fotografie circolate sui social turchi, che ritrarrebbero Bilal Erdogan a cena in un ristorante di Istanbul con un presunto leader dell’Isis, cui sarebbe imputata la partecipazione a massacri nelle città siriane di Homs e Rojava, suggerendo nuovamente il coinvolgimento diretto del figlio del presidente turco nel mercato nero del petrolio dei tagliagole.
Francesco Meneguzzo

Il petrolio dell’Isis? Si “nasconde” tra quello curdo-iracheno e Turchia, Israele e Malta forse sanno qualcosa. Ma pare che anche in Italia...

Di Mauro Bottarelli , il

Blood&Oil

Al di là della loro efficacia reale, i raid russi contro le carovane di autocisterne dell’Isis, che trasportano petrolio del Kurdistan iracheno e dalla Siria verso la Turchia per essere vendute, hanno portato alla luce una realtà incontrovertibile: quella catena di fornitura petrolifera non solo è nota a tutti ma, per funzionare come ha fatto e come fa, gode di appoggi e interessi ad altissimo livello. Spesso, da parte di insospettabili. 


Turkey_Isis9Prima di entrare nei dettagli operativi, è meglio mettere in prospettiva storica e geografica. A confermare in tempi non sospetti che esisteva una tratta parallela del petrolio, fu ne il ministro per le Risorse naturali del Kurdistan, Ashti Hawrami, con queste parole: “Effettivamente, siamo stati discriminati per molto tempo a livello finanziario. Per questo, all’inizio del 2014, quando per l’ennesima volta non abbiamo ricevuto un budget di spesa, abbiamo deciso di cominciare a pensare a una vendita indipendente di petrolio”. Due fatti: il Kurdistan iracheno ha come capitale Erbil e come entità il Kurdish Regional Government, cui però Baghdad non riconosce un budget, né di fatto una sovranità piena. 
Secondo, questa cartina mostra chiaramente da dove prenda il petrolio l’Isis prima di rivenderlo in Turchia.
Bene, nel giugno dello scorso anno, cosa stesse accedendo si palesò con maggiore chiarezza, quando la nave da trasporto SCF Altai arrivò nel porto israeliano di Ashkelon, dove scaricò il primo carico di petrolio della pipeline curda. All’epoca, la Reuters notò come “la nuova rotta dell’export verso il porto turco di Ceyhan, disegnata per bypassare il sistema di pipeline federali di Baghdad, ha creato dure dispute sulla vendita di petrolio proprio tra il governo centrale iracheno e i curdi”. Insomma, i tanto odiati curdi – il cui avvocato è stato ucciso sabato scorso a colpi di pistola nelle strade di Dyarbakir – non solo estraggono petrolio a livello indipendente ma usano il nemico turco come tratta per bypassare Baghdad e arrivare in Israele via tanker.


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Una settimana prima dell’operazione di scarico in Israele, la SCF Altai ricevette il petrolio curdo attraverso un trasferimento da nave a nave dalla The United Emblem a largo delle coste di Malta: la nave caricò il greggio proprio a Ceyhan, la città turca dove la pipeline connette il porto al Kurdistan, come ci mostra la cartina.
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Di fatto, i curdi operano in contestazione di un accordo con il governo di Baghdad, in base al quale a Erbil spettano il 17% delle entrate fiscali dal petrolio iracheno e, in cambio, il governo curdo garantisce 550mila barili al giorno alla SOMO, l’azienda energetica statale irachena. Subito dopo l’accordo, Baghdad accusò i curdi di non rispettare i patti e ridusse il budget a loro destinato a livelli frazionali nei primi cinque mesi del 2014.


Chi invece opera per business è qualcun’altro. E nel silenzio complice di molti, visto che non appena Vladimir Putin, parlando al G20 di Antalya a inizio mese, parlò di Paesi che finanziano l’Isis ma anche di palese traffico di petrolio che ingrassa Daesh, lo stesso giorno – come per miracolo dopo un anno di dormiente inattività – i jet statunitensi colpirono 116 cisterne carice di petrolio e nelle due settimane successive, aviazione Usa e russa ne vaporizzarono nel complesso 1300. Ora, guardate questa cartina,
Turkey_Isis
la quale ci mostra come la catena di fornitura petrolifera sia molto complessa, partendo da Sanliura, Urfa, Hakkari, Siirt, Batman, Osmaniya, Gaziantep, Sirnak, Adana, Kahramarmaras, Adiyaman e Mardin, con la stringa di hub operativi che finisce ad Adana, dove ha appunto sede il porto per i container di spedizione petrolifera di Ceyhan.
Una città di 110mila abitanti ma soprattutto hub per il trasporto per il petrolio e il gas di Medio Oriente, l’Asia centrale e Russia. Inoltre, il porto ha anche un attracco per i cargo e un terminal petrolifero, gestito dall’azienda di Stato turca Botas International Limited (BIL) e con un capacità di export annuale di 50 milioni di tonnellate: la quantità di greggio esportato dal Ceyhan supera il milione di barili al giorno. Eppure, stando a evidenze militari e scientifiche, l’Isis non è mai stato in grado di trattare più di 45mila barili al giorno. Come si spiega allora?
Turkey_Isis7


Una spiegazione prova a darcela lo studio di George Kiourktsoglou e di Alec D Coutroubis e questa tabella,
Turkey_Isis3

relativa al costo del noleggio charter lungo le rotte più importanti per il commercio di petrolio. In base ai Baltic Dirty Tanker Indices, la rotta di nostro riferimento per il caso in questione è quella che originariamente andava da Baniyas in Siria a Laveras in Francia, denominata TD 11 ma che dal settembre 2011, a causa della guerra civile siriana, è stata ridenominata TD 19 e aveva come unica differenza il porto di Ceyhan al posto di quello di Baniyas. Come vedete dalla tabella, tra il luglio 2014 e il febbraio 2015, ci sono tre picchi che non hanno corrispondenze con le altre rotte commerciali mediorientali ma riguardano solo la TD 19.



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Il primo si sviluppa dal 10 luglio 2014 fino al 21 e corrisponde alla caduta nella mani dell’Isis del più grande giacimento petrolifero siriano, AlOmar. Il secondo tra la fine di ottobre e la fine di novembre 2014, in corrispondenza con i combattimenti tra Isis e forze regolari siriane per il controllo dei giacimenti di gas di Jhar e Mahr e della compagnia del gas Hayyan nella provincia di Homs. Il terzo picco è avvenuto tra la fine di gennaio e il 10 di febbraio di quest’anno ed è relativa ad attacchi aerei nella zona di Hawija, a est di Kirkuk.
Insomma, c’è un nesso invisibile tra operatività a Ceyhan e Isis, reso evidente dai costi di noleggio nei tankers, i quali vedono picchi sempre a ridossi delle attività terroristiche dell’Isis sul terreno. Insomma, ogni volta che Daesh sta combattendo in un’area vicino a pozzi o giacimenti di petrolio, stranamente gli export da Ceyhan conoscono un picco.


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Ma torniamo un attimo al numero di prima, ovvero ai massimi 45mila barili che l’Isis riesce a trattare al giorno, a fronte del milioni di barili trattati a Ceyhan: il petrolio dei terroristi, in quel mare di greggio, si confonde e diventa, di fatto, invisibile. E qui la cosa si fa interessante, perché questa mappa
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ci mostra come il governo di Erbil nasconda i suoi carichi di greggio, di fatto illegali per il governo di Baghdad: essendo molti acquirenti grandi multinazionali come Exxon Mobile (la quale ha in essere sei contratti con il governo regionale curdo-iracheno, come mostra la cartina a fine periodo) e BP che hanno contratti in essere con Baghdad, per evitare sgradevoli passi falsi, alcuni compratori esano appunti i tanker del porto israeliano di Ashkelon, dove il greggio viene caricati per essere rivenduto più tardi e compratori europei. In alternativa, il petrolio curdo viene venduto attraverso trasferimento offshore a largo di Malta, garantendo ai compratori di non finire sotto gli occhi della SOMO, l’azienda statale irachena.

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Ma quella cartina ci mostra anche altro, ovvero che come scriveva il Financial Times, i trasferimenti da nave a nave al largo di Malta servono per portare il greggio curdo in Israele. Ecco il quotidiano della City la scorsa settimana: “Le raffinerie israeliane e le compagnie petrolifere hanno importato più di 19 milioni di barili di petrolio curdo tra l’inizio di maggio e l’11 di agosto, stando a dati delle società di tracciatura delle spedizioni. Si tratta dell’equivalente del 77% della domanda media israeliana, la quale è di circa 240mila barili al giorno. Più di un terzo del greggio proveniente dal Nord dell’Iraq e che è stato spedito dal porto turco di Cehyan in quel periodo è finito in Israele”.

Insomma, in quale contesto ci stiamo muovendo? In uno che vede il petrolio curdo già tecnicamente illegale alla vendita ma a cui la Turchia è ben felice di facilitare il passaggio verso acquirenti stranieri via Ceyhan: quale miglior modo per l’Isis di far passare il proprio petrolio rubato senza destare sospetti, se non utilizzando un porto che è già in odore di traffici non proprio trasparenti e per volumi decisamente alti? La Al-Araby al-Jadeed, un media gruppo di proprietà della Qatari Fadaat Media, la scorsa settimana rendeva noto di aver ricevuto alcune soffiate da un colonnello dei servizi iracheni a cui era stato garantito l’anonimato. Ecco le sue parole: “Una volta arrivato in Turchia, il petrolio dell’Isis è indistinguibile da quello venduto dal governo regionale curdo, visto che entrambi sono venduti come illegali o senza licenza. Di fatto, chi compra petrolio curdo, compra anche quello che Daesh vende per finanziarsi”. Sarà vero?
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Questa tabella,

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ci mostra le spedizioni di petrolio di parecchie aziende del settore (non nominate dal giornale) dai porti turchi di Ceyhan, Mersin e Dortyol verso Israele. Ora vi ripropongo la tabella di prima,
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dalla quale si desume che il petrolio vada direttamente da Ceyhan ad Ashdod in Israele. Ma verrebbe da chiedersi se per caso, per essere “ripulito” e reso invisibile nella sua origine, il petrolio dell’Isis non passi attraverso la connection maltese tanto utile al petrolio curdo, la quale finisce poi comunque in Israele. Questo perché il figlio del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, Bilal (a destra nella foto a fine periodo), casualmente è proprietario di un’azienda di spedizioni maltese, la BMZ Group, la quale negli ultimi due mesi ha comprato altrettanti tankers per un costo totale di 36 milioni di dollari, registrati alla Oil Transportation & Shipping Company, un’affiliata maltese nel BMZ Group, lo scorso mese di ottobre.

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Queste due lunghe tabelle ci mostrano i dati portuali da Ceyhan e Ashdod, con i vascelli per il trasporto di petrolio battenti bandiera maltese evidenziati.

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Insomma, la Turchia di fatto facilita e non poco il traffico da 400 milioni l’anno dell’Isis ma stando a un funzionario europeo che opera per una compagnia petrolifera internazionale e intervistato sotto anonimato da Al-Araby al-Jadeed, “il petrolio viene raffinato solo una o due volte in Israele, a causa della mancanza di raffinerie avanzate. Ma questo viene poi esportato presso nazioni del Mediterraneo – dove il petrolio guadagna uno stato semi-legittimo – a 30-35 dollari al barile”.


E ora, tenetevi forte: “Il petrolio è venduto entro un giorno a una serie di gruppi privati, mentre la maggior parte va a una raffineria italiana di proprietà di una grande azionista di una squadra di calcio italiana, dove il petrolio è raffinato e usato in loco”. Azionista di una squadra di calcio italiana con interessi nel petrolio: ammesso che sia vero quanto riportato da Al-Araby al-Jadeed, non mi viene in mente nessuno.. 

E per finire, la chicca: “Israele è diventato in un modo o nell’altro il principale marketer del petrolio dell’Isis, visto che senza il suo intervento quel greggio rimarrebbe tra Iraq, Siria e Turchia. Anche le tre aziende non riceverebbero il petrolio se non avessero un buyer in Israele”. La scorsa settimana, proprio nell’articolo di lunedì, mi chiedevo poi perché nessuno si ponga una delle domande più importanti: ovvero, chi sono i “middlemen”, gli intermediari di questo traffico di petrolio di fatto illegale e sottocosto?
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La Reuters, quindi fonte più che autorevole, parlava in questi termini del commercio illecito di petrolio curdo: “Fonti di mercato hanno riferito che parecchie trading house, incluse Trafigura e Vitol, hanno trattato petrolio curdo. Sia Trafigura che Vitol hanno declinato di commentare il loro ruolo nelle vendite di petrolio”. E ancora, il Financial Times notava che “sia Vitol che Trafigura hanno pagato in anticipo il governo regionale curdo per il petrolio, utilizzado i cosiddetti accordi pre-pay, aiutando così Erbil ha tamponare i sui gap di budget”. Di più, quando il Kurdistan stava cercando un advisor per assistenza nel tentativo di circonvenire Baghdad, il governo regionale scelse Murtaza Lakhani, che aveva lavorato per Glancore in Iraq negli anni Duemila: “Sapeva esattamente chi poteva e chi non poteva fare affari con noi. Ci ha aperto le porte e identificato aziende di spedizione che volevano lavorare con noi”, concluse Ashti Hawrami, il già citato ministro per le Risorse naturali del Kurdistan iracheno.

Insomma, a quali conclusioni giungere? Semplice, al netto di tutto questo e delle possibili smentite da parte di chi è chiamato in causa, certe cifre e certe coincidenze parlano da sole. Per un po’ di sconto su un barile già ai prezzi minimi da anni, stiamo pagando le armi che l’Isis usa per fare la guerra, principalmente a civili iracheni, siriani e curdi. Complimenti, davvero un esempio di superiorità occidentale. Ma, forse, il modo migliore per congedarmi da voi, visto che ieri si è aperta la conferenza sul clima di Parigi, è quello di riportare le parole dell’ex vice-direttore della Cia, Michael Morell, nel corso di un’intervista al giornalista della PBS, Charlie Rose, sul perché gli Usa non abbiano attaccato le strutture petrolifere dell’Isis. Eccole e giudicate pure da soli: “Non abbiamo colpito gli impianti petroliferi sotto il controllo dell’Isis perché non volevamo creare un danno ambientale e distruggere quelle infrastrutture”.

P.S. Scusate, stavo scordando la cosa più importante: poche ore fa il vertice tra Ue e Turchia tenutosi a Bruxelles ha sbloccato 3 miliardi per aiutare Ankara nella gestione dei profughi – ovvero, paghiamo per farci invadere meglio -, ha sancito un netto ammorbidimento del regime dei visti per i cittadini turchi e, se non fosse stato per il veto di Cipro, avrebbe spalancato ufficialmente le porte, accelerando l’iter legato al cosiddetto Articolo 17, alla Turchia per l’ingresso nell’Ue. Non so voi ma io sono nauseato. 

Sono Mauro Bottarelli, Seguimi su Twitter! Follow @maurobottarelli
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