La storia delle piccole banche italiane parte da molto lontano. Da un mondo ottocentesco di piccoli agricoltori, artigiani e commercianti che per i grandi istituti di credito di allora non erano, tecnicamente, “bancabili”. Dalla nascita del banchiere di provincia, sovente uno di quegli stessi piccoli imprenditori, talvolta addirittura il parroco di Paese, che instaurava con ogni piccolo imprenditore locale un rapporto personale e fiduciario, che spesso prescindeva dal merito di credito. Dalle piccole casse di risparmio che nascono, crescono e proliferano ovunque, sotto ogni campanile. Dalla pratica dei castelletti bancari e del multiaffidamento che diventa la prassi per quel 90 e rotti percento di piccole e piccolissime imprese che diventano la spina dorsale dell'economia italiana. Dai consigli di amministrazione che diventano lo specchio della piccola società economica dei piccoli territori italiani.
Poi cade il muro di Berlino, la storia si rimette in
moto e arrivano la globalizzazione e l'Unione Europea, ognuno con le
sue regole del gioco, siano esse la concorrenza senza più barriere e
protezioni (la globalizzazione) o parametri più stringenti relativi alla
disponibilità di concedere credito da parte di tali, piccoli istituti
(l'Europa). Una spirale che seleziona sia le imprese, sia le banche. Il sistema - come in un gioco di specchi - si polarizza tra chi, banche e imprese, ce la fa a competere e chi no.
Alcune banche, grandi o piccole che siano, si fondono in gruppi più ampi, parecchie imprese spariscono. Ma nei territori, sotto i campanili, resistono alcune ridotte che di entrare nel nuovo millennio non ne vogliono sapere. Piccole imprese che non vogliono sparire e piccole banche che continuano a prestare loro i soldi, in spregio a ogni rating e a ogni direttiva comunitaria, in un legame che taluni, allora come oggi, definiscono come perverso e malato e altri, oggi come allora, glorificano come impavida resistenza del nostro capitalismo - di territorio e di relazione - contro la dittatura dell'algoritmo e delle tecnocrazie, che sono distanti e che non capiscono. Ma le cose vanno avanti, in qualche modo. Che sono anni di vacche grasse, di liquidità che scorre a fiumi, di mutui e finanziamenti - anche solo per andare in vacanza - concessi a chiunque li chieda, di furbetti del quartierino con manie di grandezza.
Alcune banche, grandi o piccole che siano, si fondono in gruppi più ampi, parecchie imprese spariscono. Ma nei territori, sotto i campanili, resistono alcune ridotte che di entrare nel nuovo millennio non ne vogliono sapere. Piccole imprese che non vogliono sparire e piccole banche che continuano a prestare loro i soldi, in spregio a ogni rating e a ogni direttiva comunitaria, in un legame che taluni, allora come oggi, definiscono come perverso e malato e altri, oggi come allora, glorificano come impavida resistenza del nostro capitalismo - di territorio e di relazione - contro la dittatura dell'algoritmo e delle tecnocrazie, che sono distanti e che non capiscono. Ma le cose vanno avanti, in qualche modo. Che sono anni di vacche grasse, di liquidità che scorre a fiumi, di mutui e finanziamenti - anche solo per andare in vacanza - concessi a chiunque li chieda, di furbetti del quartierino con manie di grandezza.
Nei territori, sotto i campanili, resistono banche e imprese che di entrare nel nuovo millennio non ne vogliono sapere
Questo fino al 2007. Poi arriva la crisi, le banche
si trovano in pancia un oceano di titoli spazzatura, smettono di
prestarsi i soldi tra loro e di prestarli a imprese e cittadini, che
nessuno si fida più di nessuno. Ricevono un oceano di soldi dai governi e
dalle banche centrali, che usano per salvare quegli stessi stati che
glieli hanno dati, comprando titoli di Stato, o per salvare se stesse,
creando riserve su riserve che coprano le perdite che hanno in pancia. Per le grandi banche, la spazzatura si chiamano derivati.
Per le piccole, soprattutto per le piccole, un mare di sofferenze, di
crediti non più esigibili e di immobili che, complice la bolla
dell'edilizia, si svaluta di minuto in minuto.
Le grandi banche, però, sono grandi e reggono il colpo, a prezzo di tagli drastici agli attivi patrimoniali, al personale e al credito concesso. Loro sono i bankster - crasi tra banker e gangster - i cattivi, quelli che tolgono ossigeno al sistema produttivo, che valutano il merito di credito con dei semaforini e che fanno suicidare i piccoli imprenditori che non hanno i soldi per pagare gli stipendi.
Le medie e le piccole, invece, non sanno più che pesci pigliare e vanno avanti per inerzia. Tra il 2008 e il 2011 continuano a prestare soldi a chi glieli chiede - magari un po' meno, certo -, soprattutto se questo qualcuno è amico, o amico di amici (a volte lo fanno pure i grandi, sia chiaro, qualcuno ci rimette la poltrona e qualche volta, come a Siena, succede il finimondo) soprattutto se la proprietà della banca è in mano a fondazioni espressioni a loro volta del notabilato locale. E, se non sono quotate, aumentano il loro capitale facendo comprare agli sportelli - in palese conflitto d'interesse - azioni e obbligazioni ai loro correntisti, magari promettendo loro mutui a tassi agevolati.
In qualche modo, sperano che passi la nottata e decidono consapevolmente di non accantonare in modo proporzionale all'aumento delle sofferenze per non deprimere utili e dividendi - in particolare le popolari venete - e avere soci plaudenti. Non sanno - o forse fanno finta di non sapere - che dietro la curva c'è il progetto dell'Unione Bancaria Europea, con il suo portato di regole e rigidità del tutto aliene al nostro piccolo mondo antico, che fa della ricerca di espedienti ed eccezioni per sopravvivere la propria regola di vita. Non sanno - o fanno finta di non sapere - che dietro quella curva c'è pure il bail in, la regola - sacrosanta, in linea teorica - secondo cui a pagare per un fallimento bancario sono in prima istanza gli stakeholder di quell'istituto, siano essi azionisti, obbligazionisti o grandi correntisti.
Il velo, insomma, cade quando la Bce comincia ad assumere un ruolo di vigilanza e mette a nudo tutte le sottovalutazioni nascoste nei bilanci e costringe le piccole banche ad aumenti di capitale, con soci - le fondazioni - che non hanno più soldi. Nel frattempo le sofferenze montano e gli incagli pure, qualche banca comincia a chiedere una bad bank di sistema sul modello spagnolo che se le prenda tutte con se, liberandole dal male, mentre qualcun'altra - le più grandi, al solito - comincia a pensare di farsela da sola, la sua bad bank e qualcun altro, generalmente i grandi fondi e le società di gestione del risparmio, comincia a pensare di fare incetta di quelle sofferenze, comprandole a zero, per guadagnarci, complessivamente, parecchio. Aspettano, però: che il pettine raggiunga il nodo, che la bolla esploda davvero.
Le grandi banche, però, sono grandi e reggono il colpo, a prezzo di tagli drastici agli attivi patrimoniali, al personale e al credito concesso. Loro sono i bankster - crasi tra banker e gangster - i cattivi, quelli che tolgono ossigeno al sistema produttivo, che valutano il merito di credito con dei semaforini e che fanno suicidare i piccoli imprenditori che non hanno i soldi per pagare gli stipendi.
Le medie e le piccole, invece, non sanno più che pesci pigliare e vanno avanti per inerzia. Tra il 2008 e il 2011 continuano a prestare soldi a chi glieli chiede - magari un po' meno, certo -, soprattutto se questo qualcuno è amico, o amico di amici (a volte lo fanno pure i grandi, sia chiaro, qualcuno ci rimette la poltrona e qualche volta, come a Siena, succede il finimondo) soprattutto se la proprietà della banca è in mano a fondazioni espressioni a loro volta del notabilato locale. E, se non sono quotate, aumentano il loro capitale facendo comprare agli sportelli - in palese conflitto d'interesse - azioni e obbligazioni ai loro correntisti, magari promettendo loro mutui a tassi agevolati.
In qualche modo, sperano che passi la nottata e decidono consapevolmente di non accantonare in modo proporzionale all'aumento delle sofferenze per non deprimere utili e dividendi - in particolare le popolari venete - e avere soci plaudenti. Non sanno - o forse fanno finta di non sapere - che dietro la curva c'è il progetto dell'Unione Bancaria Europea, con il suo portato di regole e rigidità del tutto aliene al nostro piccolo mondo antico, che fa della ricerca di espedienti ed eccezioni per sopravvivere la propria regola di vita. Non sanno - o fanno finta di non sapere - che dietro quella curva c'è pure il bail in, la regola - sacrosanta, in linea teorica - secondo cui a pagare per un fallimento bancario sono in prima istanza gli stakeholder di quell'istituto, siano essi azionisti, obbligazionisti o grandi correntisti.
Il velo, insomma, cade quando la Bce comincia ad assumere un ruolo di vigilanza e mette a nudo tutte le sottovalutazioni nascoste nei bilanci e costringe le piccole banche ad aumenti di capitale, con soci - le fondazioni - che non hanno più soldi. Nel frattempo le sofferenze montano e gli incagli pure, qualche banca comincia a chiedere una bad bank di sistema sul modello spagnolo che se le prenda tutte con se, liberandole dal male, mentre qualcun'altra - le più grandi, al solito - comincia a pensare di farsela da sola, la sua bad bank e qualcun altro, generalmente i grandi fondi e le società di gestione del risparmio, comincia a pensare di fare incetta di quelle sofferenze, comprandole a zero, per guadagnarci, complessivamente, parecchio. Aspettano, però: che il pettine raggiunga il nodo, che la bolla esploda davvero.
Luigino D'Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si suicida dopo aver visto svanire 170mila euro di obbligazioni, è la vittima, immolata sull'altare dell’inerzia e dell'incapacità del sistema
E le piccole banche continuano a prestare soldi a
chi gli pare, e le sofferenze montano, i bilanci piangono, i titoli
crollano e i piccoli azionisti e obbligazionisti si ritrovano con un
pugno di mosche in mano e i fondi aspettano sulla riva del fiume che
passino i cadaveri. E i cadaveri arrivano, eccome se arrivano. Qualche
settimana fa è stato il turno di Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. A questo giro si chiamano Banca Marche, Banca Etruria, CariFerrara e CariChieti.
Il governo le salva, si fa per dire, con un prestito-ponte
generosamente elargito dalle grandi banche e con un decreto approvato in
tutta fretta che scongiura il rischio bail in e mette al riparo,
perlomeno, i correntisti dal prelievo forzoso dai loro conti.
Le cifre, però, fanno comunque spavento. Otto miliardi e mezzo di sofferenze, che vengono conferite a una bad bank con una valore nominale di un miliardo e mezzo, circa il 17% (le grandi banche valutano le loro sofferenze al 40% del loro valore, a proposito di soldi prestati a caso). E a pagare il conto sono i piccoli azionisti e obbligazionisti dei piccoli territori, circa 150mila persone, con una media di 10mila euro di titoli a testa, che vedono i loro risparmi andare in fumo in un battito d'ali.
Luigino D'Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si suicida dopo aver visto svanire 170mila euro di obbligazioni, è l'idealtipo della vittima, immolata sull'altare dell’inerzia e dell'incapacità del sistema del credito di territorio e degli azzardi dei suoi manager. Ma qualcuno dovrebbe ricordare che quel sistema e quei manager, che oggi definiamo criminali, li abbiamo creati, coccolati, glorificati, tenuti al riparo dal male affinché ci tenessero al riparo da Francoforte, da Basilea e della globalizzazione.
Anche se le fondamenta erano marce, anche se sapevamo benissimo che la corda attorno al collo era sempre più stretta, che il Re era nudo come un verme. Lo sapevamo, ma abbiamo deciso di far finta di niente e di andare avanti così, col dito puntato contro l'Europa cattiva e con la nostra solita, spocchiosa, autoindulgenza. Quella che ci porta a giustificare chi ha deliberatamente e consapevolmente giocato col fuoco, nel nome del territorio e delle relazioni. Quella che ci porta a chiedere - o promuovere - aiuti umanitari verso chi, giocando deliberatamente e consapevolmente col fuoco, si è scottato. E forse da domani avremo un credito migliore e un capitalismo migliore, chi lo sa. Di sicuro, però, non smetteremo mai di avere alibi.
Da Linkiesta
Le cifre, però, fanno comunque spavento. Otto miliardi e mezzo di sofferenze, che vengono conferite a una bad bank con una valore nominale di un miliardo e mezzo, circa il 17% (le grandi banche valutano le loro sofferenze al 40% del loro valore, a proposito di soldi prestati a caso). E a pagare il conto sono i piccoli azionisti e obbligazionisti dei piccoli territori, circa 150mila persone, con una media di 10mila euro di titoli a testa, che vedono i loro risparmi andare in fumo in un battito d'ali.
Luigino D'Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si suicida dopo aver visto svanire 170mila euro di obbligazioni, è l'idealtipo della vittima, immolata sull'altare dell’inerzia e dell'incapacità del sistema del credito di territorio e degli azzardi dei suoi manager. Ma qualcuno dovrebbe ricordare che quel sistema e quei manager, che oggi definiamo criminali, li abbiamo creati, coccolati, glorificati, tenuti al riparo dal male affinché ci tenessero al riparo da Francoforte, da Basilea e della globalizzazione.
Anche se le fondamenta erano marce, anche se sapevamo benissimo che la corda attorno al collo era sempre più stretta, che il Re era nudo come un verme. Lo sapevamo, ma abbiamo deciso di far finta di niente e di andare avanti così, col dito puntato contro l'Europa cattiva e con la nostra solita, spocchiosa, autoindulgenza. Quella che ci porta a giustificare chi ha deliberatamente e consapevolmente giocato col fuoco, nel nome del territorio e delle relazioni. Quella che ci porta a chiedere - o promuovere - aiuti umanitari verso chi, giocando deliberatamente e consapevolmente col fuoco, si è scottato. E forse da domani avremo un credito migliore e un capitalismo migliore, chi lo sa. Di sicuro, però, non smetteremo mai di avere alibi.
Da Linkiesta
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