Tutto è cambiato, sembra, in poco più di dieci anni. Ai tempi del «ti amooo», e si parla del 2002, la pubblicità ancora rappresenta gli scampoli del mito, ciò che resta, e non è poco, di quel che è stato per decenni il bancario nell'immaginario domestico: posto fisso, retribuito con quattordici o quindici mensilità, bonus come le borse di studio ai figli dei dipendenti e il passaggio «ereditario» della scrivania: quando il papà va in pensione il suo ragazzo (più raramente sua figlia) ha il diritto, o per meglio dire la garanzia, di essere assunto. Un turnover che richiama consuetudini artigianali e che magari talvolta ha richiesto l’assolvimento di un obbligo accessorio «adesivo», cioè l’iscrizione al sindacato. Cantavano i Gufi nel 1966: «Io vado in banca, stipendio fisso, così mi piazzo e non se ne parla più». E in effetti fra il 1970 e il 1980 gli occupati in aziende di credito passano da 151 mila a quasi 290 mila.
Del resto, quarant'anni fa per il neo-ragioniere, trenta e vent'anni fa per il neo-laureato alla Bocconi, era un’abitudine più che un’aspirazione ricevere subito a casa varie offerte di lavoro. E quelle che avevano una banca per mittente ottenevano nella maggior parte dei casi il favore dei genitori. Anche perché, soprattutto alla fine degli anni Ottanta, l’auto-marketing aveva portato alcuni istituti di credito a usare toni accattivanti di sfida («Stiamo cercando coloro che saranno dirigenti fra 16-17 anni») o perentori (del tipo: «Si presenti alle 9 del tal giorno per un colloquio di lavoro») ai quali era impossibile (o quasi) resistere.
Fatto sta che, fino a quando ha funzionato la logica collettiva dell’ascensore sociale, l’impiegato di banca ha rappresentato il miglior traguardo possibile per livello retributivo, tranquillità di posizione e garanzia di (pur lenta) carriera, grazie agli automatismi inseriti nei contratti del settore dal 1973. È dunque considerato più brillante, colto e pagato meglio di un travet della pubblica amministrazione o di uno dipendente postale. Immagine confermata dalle analisi sociologiche che, fra gli anni Ottanta e Novanta, hanno riguardato la figura professionale e l’identità sociale del bancario (come quelle realizzate da Giovanni Gasparini a Milano, Giancarlo Tanucci a Roma e Roberto di Monaco a Torino), che viene collocata «a un livello medio-superiore di valorizzazione sociale: è una professione caratterizzata da evidenti segni di prestigio, status sociali riconosciuti o ritenuti tali».
L’immagine che brilla nelle ambizioni demoscopiche è però rimasta fuori dalla porta sia nel cinema sia nella letteratura. Non è l’aspirante direttore «sognato» dalle mamme il protagonista di film come Rag. Arturo De Fanti, impiegato bancario diretto da Luciano Salce nel 1980 e interpretato da Paolo Villaggio e Catherine Spaak. O come Impiegati che Pupi Avati gira nell’85: commedia all’italiana il primo, simbolica rappresentazione dello yuppismo il secondo. E nei romanzi prevale l’oscurità di una professione soffocata dalla routine delle mansioni e da piramidi gerarchiche spesso grottesche costruite su automatismi e raccomandazioni piuttosto che su meriti. Oscurità vissuta in alcuni casi in prima persona. Italo Svevo, costretto dal fallimento dell’azienda paterna a vent’anni di lavoro «forzato» nella filiale triestina della viennese Banca Union, si descrive in Una vita nel protagonista Alfonso Nitti, sopraffatto da un ambiente, quello bancario appunto, che gli è estraneo. Il suicidio è la «morte in banca», chiave di lettura che diventerà titolo del primo romanzo di Giuseppe Pontiggia, entrato nel ’51 al Credito italiano dopo che la morte del padre lo ha indirizzato verso un destino di lavoro a lui estraneo: «In banca sono sempre stato un “turista”». E dieci anni dopo ha lasciato il «posto fisso» per insegnare alle scuole serali, incoraggiato a continuare a scrivere anche da Sergio Solmi, il poeta capo dell’ufficio legale della Comit che, quando il libro di Pontiggia è stato pubblicato nel ’59 lo ha portato a Raffaele Mattioli. «Ha visto cosa scrive?», gli ha domandato. «Ma lui lavora per la concorrenza», è stata la risposta del banchiere-umanista. Così come ha lavorato per la «concorrente» Cariplo (poi, come Comit, aggregata in Intesa) Giampaolo Rugarli: entra nella cassa di risparmio milanese perché glielo impone il padre, dirigente di Bankitalia. Lui voleva iscriversi a lettere. Porterà la sua «morte in banca» in diversi romanzi e racconti, uno dei quali Digitazione, pubblicato nel 1988 da «Economia e management», prefigura l’invasione di computer e tecnologie allo sportello. Che sarà una delle ragioni determinanti del declino economico, sociologico, professionale e «aspirazionale» del bancario. Mitico, anzi gradualmente ex.
Sì, perché il suo crepuscolo ha i tempi lunghi delle metamorfosi globali. E i primi a raccontare la trama futura sono stati proprio gli scrittori. Quando, nel novembre 1993, l’allora direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini, precede l’apertura della vertenza per il rinnovo del contratto di circa 340 mila bancari con «l’invito» a una svolta — attenuando automatismi di carriera ed economici perché gli oneri sono diventati insostenibili e solo così si possono difendere i tanti posti a rischio — è proprio Rugarli a scrivere sul «Corriere della Sera»: «Sia resa lode a Dio, finalmente. A mia memoria mai si conobbero prestatori d’opera più infelici e, chi sa perché, più invidiati. Quasi tutti i bancari considerano il lavoro un ripiego dal quale sognano di evadere. Non scappano perché si arrendono al ricatto della sicurezza: mi annoio, mi deprimo, mi rimbecillisco ma, fuori di qui, dove vado?». E Pontiggia nel ’97, quando si parla di tagli e ristrutturazioni, avverte il pericolo «che si “licenzino” competenze preziose», ma sottolinea che «il privilegio del posto sicuro favorisce indolenza e parassitismo ed è incompatibile con i tempi».
E siamo solo agli inizi. Il primo bancomat approda in Italia nel 1976 a Ferrara. Nel 2012 le operazioni di prelievo automatico, che hanno quindi «saltato» lo sportello, sono state in Italia 773 milioni e le carte bancomat sono 33,2 milioni. È la tecnologia della disintermediazione che avanza e di cui le «macchinette atm» sono forse la forma più primitiva. Perché la vera rivoluzione è nel web, nell'internet banking. Il nostro Paese è ancora indietro, ma oltre 26 milioni di persone utilizzano internet, e l’80% di loro si collega con la banca. Per fare bonifici o compravendere titoli. Non ha sorpreso nessuno dunque che l'Abi ai sindacati nel presentare i «fattori di crisi» abbia sottolineato che in Italia ci siano ancora 55 sportelli bancari ogni centomila abitanti contro i 41 medi in Europa e i 20 in Gran Bretagna. Le filiali si svuotano, sono troppe, sovradimensionate. Non per nulla le società di consulenza come McKinsey parlano per il futuro di banche light, ascoltate con attenzione da big come Unicredit o Intesa Sanpaolo. E chi la banca leggera l’ha costruita negli ultimi anni, come Mediobanca con Chebanca! per il reclutamento iniziale non ha puntato su bancari o laureati in economia: in prevalenza ha pescato nel commercio, dove il cliente va «catturato» e resta fedele solo se è soddisfatto.
Tra i fattori di crisi che portano a stimare oggi in circa 20 mila i posti a rischio non c’è però solo il web. Per la «nuova siderurgia», come nel ’95 ha chiamato il settore del credito il banchiere Gianni Zandano, gli ultimi 15 anni sono stati contrassegnati anche da aggregazioni che hanno prodotto esuberi, e dalla grande crisi del 2007 che ha scosso dalle fondamenta modelli di business e parametri di redditività del sistema. Il bancario con extramensilità e benefit, è diventato «insostenibile». «Figura indebolita», dice il presidente del Censis Giuseppe De Rita, «anche dall'inserimento di venditori di fondi e consulenti, che lo hanno sostituito nella vita finanziaria delle famiglie. La crisi di identità gli impedisce di rinnovarsi, di riprendersi responsabilità e posizione». Sparito dunque da ambizioni, cinema, letteratura e perfino dalla sociologia, che preferisce l’impiegato statale per le proprie indagini, il bancario del posto fisso da mito arretra a miraggio. Più che diventare «liquido», per dirla con Zygmunt Bauman, il suo mondo antico costruito su certezze, garanzie e routine appare destinato a evaporare e disperdersi. In rete.
Sergio Bocconi
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