Pedinati da Facebook
Così ogni utente sarà schedato su tutta la rete.
Una delle idee di maggior peso e pericolosamente sottovalutate uscite dalla Silicon Valley questo autunno è il frictionless sharing (letteralmente «condivisione senza attrito»). Così come è stata esposta in settembre dal fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, questa idea potrebbe cambiare radicalmente - e non in meglio - il modo in cui fruiamo della cultura su internet.
Il principio alla base del frictionless sharing è subdolamente semplice e attraente: invece di chiedere agli utenti di rendere noti i loro prodotti preferiti - i film che guardano online, la musica che ascoltano, i libri e gli articoli che leggono - perché non registrare automaticamente tutte le loro preferenze, liberandoli in questo modo dal fastidio di doverle comunicare e permettendo agli amici di scoprire automaticamente altri contenuti interessanti? Se Zuckerberg otterrà quel che vuole, ogni singolo articolo che leggeremo o canzone che ascolteremo sarà condivisa costantemente con gli altri – senza dover più fare clic sugli appositi, fastidiosi pulsanti.
Questo è esattamente ciò a cui Facebook mira nel progettare strumenti che registrano tutto ciò che si consuma sul sito (e, inutile dirlo, consumiamo sempre più informazioni senza avventurarci fuori da Facebook). Non è impensabile che presto Facebook riesca a creare sistemi che prendono nota anche di quello che facciamo al di fuori. A questo punto, non si tratta più di una questione di tecnologia, ma di ideologia, di far sembrare la condivisione del tutto normale, perfino desiderabile.
La tecnologia esistente, in effetti, permette già a Facebook di raggiungere il suo obiettivo: solo poche settimane fa, il gigantesco social network è stato costretto a riconoscere che continuava a seguire le attività online anche di quegli utenti che avevano effettuato il logout dal sito.
Naturalmente, una buona ragione per opporsi a un futuro dove ogni nostro clic viene registrato e condiviso con gli altri, è il timore di una sorveglianza onnipresente. Silicon Valley è riuscita a dissipare tali preoccupazioni sostenendo che molti utenti di Facebook non si opporrebbero al frictionless sharing, perché non pensano che vi sia qualcuno effettivamente interessato a quel che ascoltano o leggono.
Può essere vero, ma chi ragiona così di solito sottovaluta la capacità delmarketingmoderno, delle organizzazioni politiche e dei servizi segreti di intuire molte cose su di noi da informazioni che sembrano del tutto innocenti. Vi sono numerose ricerche che dimostrano come sia facile indovinare la tendenza sessuale degli utenti semplicemente analizzando i loro amici su Facebook; o stimare il reddito analizzando quanta musica e video acquistano online; o ipotizzare la razza, basandosi su criteri di massima che indirizzano le scelte culturali di determinati gruppi etnici in relazione a musica, film, libri, e così via. Studiare gli articoli che gli utenti leggono online permette di stabilire il loro orientamento politico. Si metta insieme tutto questo e si finirà con l’ottenere un ritratto abbastanza preciso di un utente. E naturalmente, a differenza degli archivi ben custoditi della polizia, queste informazioni sono accessibili a chiunque voglia esaminarle e trarne dei vantaggi.
Ma i problemi non si limitano al monitoraggio pervasivo. Che cosa succederebbe se le aziende che fanno affari con Facebook prendessero l’abitudine di usare gli stereotipi formati dai brandelli di informazioni che forniamo loro per collocarci nelle loro ristrette categorie – ad esempio, «hippy laureato che ascolta musica alternativa ed è tendenzialmente di sinistra»?
Usando il frictionless sharing le aziende finiscono per lavorare con ciò che lo scrittore americano di tecnologia, Eli Pariser, chiama la «cattiva teoria dell’identità»: cominciano col fare ipotesi incomplete su chi siamo basandosi sulla musica, i libri o i film che consumiamo, poi cercano di scoprire in quale categoria preesistente di marketing rientriamo, e infine ci forniscono contenuti che altri utenti di quella categoria amano. Naturalmente, l’unico modo per «correggere» le ipotesi errate che le aziende fanno su di noi è fornire ulteriori informazioni su noi stessi, rivelando altri dettagli su quali canzoni, film o libri ci piacciono.
Il pericolo è chiaro: a noi utenti di Internet sarà presto negato spazio per la crescita intellettuale, perché saremo bombardati con link che ci indirizzano verso materiale che probabilmente approveremmo comunque. Il frictionless sharing diminuisce lo spazio per la provocazione, lo scandalo, lo squilibrio estetico, e fa diventare Internet la peggior parodia di Silicon Valley, dove si presume che tutti siano sorridenti e si sentano sempre meravigliosamente bene. In questa idea c’è però qualcosa di ancor più repellente. Il motivo per cui abbiamo messo consapevolmente in comune dei link online è che abbiamo pensato fornissero contenuti interessanti, stimolanti, divertenti, pericolosi od orrendi. Abbiamo dovuto dare giudizi su quello che abbiamo visto, abbiamo dovuto valutare – articoli, canzoni, libri. Certo, la maggior parte di queste opinioni sarà stata superficiale, ma ci ha costretti a esercitare il senso critico, a comportarci da esperti – anche se solo per un pubblico di dieci amici.
Ci possono essere molti motivi per non amare questa democratizzazione della critica, molti critici professionisti si sono affrettati a biasimare le recensioni di libri scritte frettolosamente su Amazon perché abbassavano lo status culturale della tradizionale critica letteraria. È però positivo, almeno nella prospettiva di una crescita della coscienza civica, che un numero sempre maggiore di persone si occupi in modo critico di cultura, invece di consumare in silenzio quel che gli viene offerto.
Ma l’ideologia del frictionless sharing cerca di promuovere un rapporto con internet di tipo molto diverso, in cui gli utenti non sono visti come critici, pronti a distinguere tra diversi tipi di contenuti, ma piuttosto come robot senz’anima destinati solo al consumo di contenuti, da inserire poi in grafici statistici, tendenze e database, in modo che gli si possano vendere sempre nuovi contenuti. Non mettiamo più consapevolmente in comune quel che ci piace: Facebook, invece, condivide tutto per noi, il bello e il brutto, l’interessante e il banale.
Certo, i nostri amici potranno ancora sapere che cosa ascoltiamo o leggiamo - anche se non è molto probabile che riescano a farlo, dato che nessuno può tener dietro a un così ampio flusso di dati di tutti gli amici online – ma nessuno si aspetterà più da noi dei giudizi su qualcosa. Quel che conta non è il nostro parere su un libro, un film o una canzone, ma il fatto che li abbiamo cercati su internet, perché questo consentirà di predire il nostro «tipo di personalità», venderci della pubblicità e, forse, raccomandarci un altro libro. È ora che ci rendiamo conto che Facebook sta eliminando la gioia, il caos e la grande varietà di opinioni che circolano su internet, sostituendovi un sorriso artificiale, una efficienza noiosa e una interazione con la cultura tanto ampia quanto incolore. Se non si vedono le probabili conseguenze del frictionless sharing, il futuro facile e senza problemi che Silicon Valley ci promette rischia di essere un disastro per chi cerca di promuovere il pensiero critico.
twitter@evgenymorozov
(traduzione di Maria Sepa)
Evgeny Morozov
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