domenica 14 giugno 2020

La Regina della Costa Nera - 4



4
Le ombre erano nere intorno a lui,
Le schiumanti zanna si aprivano,
Più fitto della pioggia cadeva il sangue;
Ma il mio amore era più forte dalla Morte,
E tutte le mura di ferro dell'Inferno
Non potevamo tenermi lontano da lui.
Il canto di Bêlit

La giungla era un nero colosso che rinserrava tra le sue braccia d'ebano la spianata ricoperta di rovine. La luna non era ancora sorta; le stelle erano scintille di ambra rovente, in cielo senza respiro che puzzava di morte. Sulla piramide che sorgeva tra le torri crollate, Conan il Cimmero sedeva come una statua di ferro, con il mento appoggiato ai pugni massicci. Ai margini della radura, fra ombre tenebrose, taciti piedi calpestavano il terreno ed occhietti rossi scintillavano. I morti giacevano insepolti. Ma sul ponte della Tigre, sopra una pira di panche spezzate, di aste di lancia e di pelli di leopardo, giaceva nel suo ultimo sonno la regina della Costa Nera, avvolta nel mantello rosso di Conan. Come una vera regina ella giaceva, con il bottino ammassato intorno a lei: seta, ricami in filo d'oro, catene d'argento, casse di gemme e di auree monete, lingotti di metallo prezioso, pugnali ingemmati.
Ma dove il bottino della città maledetta giacesse soltanto le acque stagnanti del fiume Zarkheba avrebbero potuto rivelarlo, nel punto dove Conan lo aveva gettato con barbariche imprecazioni. Ora il barbaro sedeva trucemente sulla piramide, in attesa degli invisibili nemici. La nera furia del suo cuore aveva scacciato ogni paura. Non sapeva quali forme sarebbero emerse dall'oscurità, né voleva saperlo.
Non aveva più dubbi sulle visioni del Loto Nero. Comprendeva che, mentre lo attendevano nella radura, N'Gora ed i suoi compagni erano impazziti per il terrore del mostro alato che scendeva su di loro dal cielo, e che, fuggendo in preda al panico più cieco, erano precipitati nel burrone; tutti ad eccezione del loro capo, il quale era riuscito in qualche modo ad evitarne il destino, ma non era sfuggito alla follia. E nello stesso tempo, o immediatamente dopo, o poco prima, c'era stato il massacro di coloro che erano rimasti sulla riva del fiume. Conan non dubitava che la battaglia lungo il fiume fosse stata più un massacro che non un combattimento; già debilitati dalla loro superstiziosa paura, forse i negri erano morti senza poter sferrare neppure un colpo  a propria difesa, quando erano stati attaccati dai loro nemici inumani.
Non capiva perché lui fosse stato risparmiato fino a quel momento, a meno che la maligna entità che dominava il fiume non intendesse tenerlo in vita per tormentarlo con la paura e col rimpianto. Tutto pareva indicare un'intelligenza umana o sovrumana: la rottura dei recipienti dell'acqua per dividere le forze, l'aver sospinto i negri verso il precipizio nascosto, e, ultima massima beffa, la collana scarlatta legata intorno al bianco collo di Bêlit, come il cappio del boia.
Ed essendosi riservato il cimmero come ultima e più preziosa vittima, ed avendo spremuto da lui fino all'ultima goccia una sottile tortura mentale, era probabile che il nemico invisibile volesse concludere il dramma facendogli fare la fine dei compagni. A questo pensiero, nessun sorriso piegò le labbra risolute di Conan: solo i suoi occhi si accesero di un sinistro lucore.
La luna si alzò, scintillando come fuoco sull'elmetto adorno di corna che il cimmero portava sul capo. Nessun grido destò un eco; eppure d'improvviso, la notte fu carica di tensione, e la giungla trattenne il respiro. Istintivamente, Conan liberò il fermo della spada, ancora infilata nel fodero. La piramide sulla quale sedeva aveva quattro facce, e una di esse - la faccia rivolta alla giungla - era costituita da un'ampia scalinata. Teneva in mano un arco shemita, come quelli che Bêlit faceva usare ai suoi pirati. Ai suoi piedi giaceva un mucchietto di frecce, con la cocca rivolta nella sua direzione, e lui era inginocchiato su una gamba sola.
Qualcosa si mosse nell'oscurità sotto gli alberi. Stagliate d'improvviso sullo sfondo della luna che s'innalzava, Conan vide una testa oscura ed un paio di spalle dal profilo animalesco. E poi dall'ombra si fecero avanti silenziosamente, rapidamente, alcune forme scure che correvano basse: venti enormi iene maculate. Le loro zanne schiumanti lampeggiavano al chiarore lunare, i loro occhi brillavano come mai avevano brillato gli occhi di un animale vero.
Erano venti: dunque le lance dei pirati avevano fatto vittime tra il branco, dopotutto. E mentre così pensava, Conan si portò la cocca accanto all'orecchio: al colpo sordo dell'arco, un ombra dagli occhi di fiamma fece un balzo altissimo e ricadde a terra contorcendosi. Le altre ombre non si fermarono; continuarono ad avanzare, e fra di loro, come una pioggia di morte, piombarono le frecce del cimmero, cariche di tutta la forza e la precisione di muscoli d'acciaio sorretti da un odio rovente come le fiamme dell'inferno.
Nella furia della battaglia, Conan non mancò il bersaglio: l'aria fu piena di mortali asticciole pennute. Il massacro provocato tra il branco che correva verso di lui era sorprendente. Meno di metà degli animali raggiunse i piedi della piramide. Altri caddero sui suoi ampi gradini. E abbassando lo sguardo sui loro occhi brucianti, Conan seppe che quelle creature non erano bestie; avvertiva in loro un'empia differenza, e non soltanto perché erano una taglia innaturale. Trasudavano un'aura tangibile, come la nebbia scura che s'innalzava da una palude coperta di cadaveri. Non avrebbe saputo dire quale blasfema alchimia avesse messo al mondo quelle creature; ma sapeva di avere davanti a sé un'opera diabolica, più nera dei Pozzi di Skelos.
Balzando in piedi, curvò poderosamente l'arco e cacciò la sua ultima freccia, senza mirare, nel ventre di una grossa forma pelosa che si avventava contro la sua gola. Come un raggio di luna, la freccia guizzò in avanti, senza il minimo tremito nella traiettoria, e la bestia mannara si contorse in convulsioni, a mezz'aria, e ricadde a terra trapassata da parte a parte.
Poi il resto del branco fu su di lui, in una folle, spasmodica corsa di occhi di fiamma e di fauci schiumanti. La sua spada feroce tagliò in due il primo animale, poi gli altri gli furono sopra, e con il loro urto disperato lo trascinarono a terra. Spaccò un cranio allungato con il pomo dell'elsa: sentì scheggiarsi l'osso, il sangue ed il cervello sporcargli la mano. Poi, lasciata cadere a terra la spada ormai inutilizzabile in un corpo a corpo, cercò di afferrare, una per mano, due gole dei mostri che cercavano di morderlo con furia muta.


Un odore acre e malsano lo assalì, il suo stesso sudore gli bruciò gli occhi. Solo la cotta di maglia poté evitargli di essere fatto a pezzi in un istante. La sua mano destra, nuda, si serrò su una gola pelosa e la squarciò. La mano sinistra mancò la gola dell'altra bestia, ma riuscì tuttavia ad afferrare la zampa e spezzargliela. Un breve guaito - unico grido in quella cupa battaglia: un grido orrendamente simile a quello di un uomo - uscì  dalle fauci della bestia ferita. Di fronte all'orrore sconvolgente di quel grido scaturito da una strozza bestiale, Conan involontariamente allargò le dita.
Una delle due bestie, con il sangue che sprizzava dalla giugulare strappata, balzò contro di lui in un ultimo sussurro di ferocia, e strinse le zanne sulla sua gola...per subito ricadere all'indietro, morta, nello stesso momento in cui Conan avvertiva il dolore lacerante del morso.
L'altra, balzando in avanti su tre zampe, cercò di mordergli l'addome come un lupo, e gli squarcio gli anelli della maglia. Spingendo via la bestia morente, Conan afferrò il mostro azzoppato, e, con uno sforzo che destò un grugnito sulle sue labbra macchiate di sangue, lo sollevò di peso, stringendolo tra le braccia mentre ancora cercava di divincolarsi e di mordere. Per un istante Conan barcollò, rischiando di perdere l'equilibrio, quando il respiro fetido e rovente della bestia gli ferì le nari, e le sue fauci cercarono di morderli il collo; poi la scagliò lontano da sé, precipitandola sui gradini a schiantarsi le ossa.
E mentre oscillava sulle gambe, aperte al massimo per avere un più fermo appoggio, e ansimava, e la giunga e la luna ondeggiavano in un velo rossastro sotto il suo sguardo, ai suoi orecchi giunse un forte battito di ali di pipistrello. Si chinò ad afferrare la spada, ed una volta raddrizzatosi, si rimise saldo sulle gambe e sollevò la grossa lama al di sopra della testa, con entrambe le mani, cercando di scuotersi  dagli occhi il velo sanguigno, mentre scrutava l'aria alla ricerca del nemico volante.
Ma invece di un assalto dell'aria, fu al piramide a barcollare improvvisamente, sinistramente sotto di lui. Udì un crepitio forte come quello del tuono, e vide ondeggiare sopra di sé l'alta colonna, come un bastone agitato da una mano possente. Spronato a una frenetica azione, fece un balzo ciclopico; il suo piede incontrò un gradino, a metà della discesa, che ondeggiò sotto di lui, ma il secondo, disperato balzo lo portò fuori pericolo. E proprio mentre il suo piede incontrava il terreno, la piramide crollò su se stessa con uno schianto fragoroso, simile a quello di una montagna squarciata; poi, con rombo di tuono, anche la colonna precipitò in mille frammenti. Per un cieco catastrofico istante, frammenti di marmo parvero piombare dal cielo. Infine, solo una distesa di frantumi di pietra rimase a giacere bianca e immota sotto i raggi della luna.
Conan si scosse, liberandosi dai cocci che lo coprivano per metà. Un colpo di striscio gli aveva tolto di testa l'elmetto, e per un attimo l'aveva stordito. Sulle sue gambe posava un grosso frammento di colonna, che lo teneva inchiodato al suolo. Temette di essersi spezzato le gambe. La sua chioma corvina era impastata di sudore; un fiotto di sangue scendeva dalle ferite alla gola ed alle mani. Cercò di sollevarsi su un braccio, allontanando le schegge di marmo che lo coprivano.
Poi qualcosa si stagliò sullo sfondo delle stelle, toccando terra a poca distanza da lui. Volgendo il capo da quella parte, lo vide...il Demone alato!
Il Demone si stava precipitando contro di lui con spaventosa rapidità, e in quell'istante Conan ebbe solo la confusa impressione di una forma gigantesca, simile a quella umana, che si muoveva su gambe curve e tozze; di enormi, difformi braccia allargate, di mani dagli artigli neri; di una testa deforme, nella cui larga faccia era riconoscibile un solo connotato: gli occhi iniettati di sangue. Non era né uomo, né bestia, né Demone: era un miscuglio di tratti subumani e sovrumani insieme.
Conan non ebbe tempo di formulare un pensiero razionale, logico. Si gettò verso la spada che gli era sfuggita di mano ma le sue dita non riuscirono a raggiungerla. Disperatamente, afferrò il frammento che gli bloccava le gambe, e le vene si gonfiarono sulle sue tempie quando cercò. Si spostava, ma con lentezza, ed era sicuro che il mostro lo avrebbe raggiunto prima che potesse liberarsi: e quelle mani unghiute erano la morte certa.
La corsa della creatura alata non s'era fermata. Ora torreggiava come un'ombra nera sulla forma prostrata del cimmero, e allargava le braccia...quand'ecco una bianca figura guizzare tra il mostro e la vittima.
In un folle istante era accorsa... una forma bianca e tesa, vibrante di un amore feroce come quello di una pantera. L'attonito cimmero vide, tra sé e la morte, la sottile figura di lei, luccicante come avorio ai raggi della luna; vide la fiamma dei suoi occhi neri, la spessa corona dei suoi capelli d'ebano; il suo petto si sollevava, le sue labbra rosse erano dischiuse. Lanciò un grido acuto, echeggiante come l'acciaio, gettandosi contro il petto del mostro alato.

«Bêlit!», urlò Conan. Lei lanciò un'occhiata rapidissima nella sua direzione, e negli occhi scuri comparvero le fiamme del suo amore: qualcosa di nudo ed elementare, fatto di fuoco grezzo e di lava fusa. Poi scomparve, ed il cimmero vide solo il Demone alato, che si era tratto indietro, con inusitata paura, e sollevava le braccia come per difendersi da un assalto. E lui seppe che Bêlit adesso giaceva sulla sua pira, a bordo della Tigre. Nella mente gli echeggiarono le sue parole appassionate: «Se io fossi nell'immortalità della morte, e tu stessi lottando per la vita, tornerei indietro dall'abisso per aiutarti...».
Con un urlo terribile, Conan sollevò la pietra, scagliandola di lato. Il mostro alato tornò a buttarsi su di lui, ed il cimmero balzò in piedi per affrontarlo, con le vene infiammate dalla follia. I muscoli si tesero come corde d'acciaio sulle sue braccia, quando brandì la grande spada e ruotò le caviglie per la violenza del'arco descritto dalla lama. Poco al di sopra dei fianchi la lama colpì la forma che si precipitava contro Conan, e le gambe tozze caddero da una parte, il torso da un'altra, quando la spada tagliò in due tronconi, nettamente, il corpo coperto di pelo.
Conan rimase immobile nel silenzio illuminato dalla luna, e la lama sporca di sangue divenne pesante nella sua mano. I suoi occhi si posarono sui resti del nemico. Gli occhi rossi lo fissarono ancora, arroventati da una terribile vitalità, poi si velarono e non si mossero più; le grandi mani si tesero spasmodicamente, ed infine si irrigidirono. Così si estinse la più antica razza del mondo.
Il barbaro alzò lo sguardo, cercando meccanicamente gli animali che erano gli schiavi ed i carnefici dell'orrore alato. Ma nessuno di essi si presentò alla sua vista. I corpi ch'egli vide, stesi sull'erba illuminata dal chiarore lunare, erano corpi umani, e non di bestie: uomini dal viso grifagno e dalla pelle nera, nudi, trafitti da frecce o fatti a pezzi da colpi di spada. E sotto i suoi occhi diventarono polvere.
Perché il padrone alato non era giunto in soccorso dei suoi schiavi, quando lui aveva lottato con loro? Aveva avuto paura di giungere alla portata di zanne che gli si sarebbero potute rivoltare contro per farlo a brani? Astuzia e circospezione avevano dimorato in quel cranio deforme, ma in definitiva non gli erano stati di molto giovamento.
Girando sui tacchi, il cimmero si avviò verso il molo decrepito e salì a bordo della nave. Con alcuni colpi di spada recise gli ormeggi, e si recò a poppa. La Tigre boccheggiò piano sull'acqua sonnolenta, scivolando torpidamente verso il centro del fiume, finché non fu presa dalla corrente centrale. Conan si appoggiò al timone, ed il suo sguardo dolente si fermò a lungo sulla forma che., avvolta in un rosso mantello, giaceva sulla pira funeraria, in mezzo a ricchezze che sarebbero state sufficienti a riscattare un'imperatrice.


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