domenica 7 giugno 2020

La Regina della Costa Nera - 3

3


Fu un sogno portato dal Loto Nero?
Allora sia maledetto il sogno che comprò la mia vita pigra;
E maledetta ogni lenta ora che non vede
Caldo sangue gocciolare scuro dal coltello arrossato.
Il canto di Bêlit




Dapprima ci fu l'oscurità del vuoto completo,  con i venti freddi dello spazio cosmico che lo percorrevano. Poi forme vaghe, mostruose ed evanescenti, rotolarono in un oscuro panorama attraverso una distesa di nulla, come se l'oscurità acquistasse forma materiale. I venti soffiarono e si formò un vortice, una piramide roteante di tenebra ruggente. Da esso crebbero forma e dimensione; poi all'improvviso, come nuvole che si disperdano, l'oscurità rotolò via da ogni lato ed una gigantesca città di pietra color verde scuro sorse sulla riva di un ampio fiume che scorreva in una piana illimitata. In questa città si mossero esseri dalle forme aliene.

Fatti ad immagine dell'umanità, erano distintamente non umani. Erano alati e proporzioni grandiose; non erano un ramo del misterioso albero dell'evoluzione culminante nell'uomo, ma il fiore aperto di un albero ignoto, separato e diverso dal primo. A parte le ali, nell'aspetto fisico somigliavano agli uomini come in uomo nella pienezza del suo aspetto assomiglia alle grandi scimmie. Per quanto riguarda lo sviluppo spirituale, estetico ed intellettuale, erano superiori all'uomo quanto l'uomo lo è al gorilla. Ma quando innalzarono la loro colossale città, i primi antenati dell'uomo non erano ancora sorti dal limo dei mari primordiali.
Quegli esseri erano mortali, come lo sono tutte le cose fatte di sangue e di carne. Vivevano, amavano e morivano, anche se la durata individuale della loro vita era enorme. Poi, dopo innumerevoli milioni di anni, il Cambiamento ebbe inizio. Il panorama splendette ed ondeggiò, cime un ombra proiettata come un'ombra proiettata contro una tenda svolazzante. Sulla città e sul paese le ere fluirono come onde sulla spiaggia, ed ogni onda portò modifiche. In qualche punto del pianeta i poli magnetici si spostarono: i grandi ghiacciai e le banchise si ritrassero verso i nuovi poli.
Il litorale del grande fiume cambiò. Le pianure si mutarono in paludi mefitiche abitate da rettili. Dove c'erano praterie, adesso s'innalzavano foreste che mutavano in giungle umide. E gli anni del mutamente operarono anche sugli abitanti della città. Essi non migrarono verso terre più fresche. Motivi inspiegabili per l'umanità li trattennero nell'antica città, consegnandoli alla rovina. E come le terre un tempo ricche e potenti affondavano sempre più nel nero pantano della giungle senza sole, così il popolo della città affondò nel caos della vita sbraitante della giungla. Terrificanti convulsioni scossero la terra; le notti riflettevano vulcani in eruzione che orlavano l'orizzonte buio come colonne rossastre.
Dopo un terremoto che fece crollare le mura esterne e le più alte torri della città e fece diventare nera per giorni l'acqua del fiume, a causa di qualche sostanza letale generata dagli abissi sotterranei, un terribile cambiamento chimico divenne manifesto nelle acque che la gente aveva bevuto per incalcolabili millenni.
Molti morirono, e in quelli che sopravvissero si produsse un cambiamento sottile, graduale ed orribile. Adattandosi alle mutate condizioni, erano sprofondati molto al di sotto del loro livello originale. Ma le acque letali li alterarono in maniera ancora più orribile, di generazione in generazione, bestialmente. Quelli che erano stati Dèi alati divennero Demoni, e i resti della vasta conoscenza dei loro antenati divennero distorti, pervertiti e deviati  verso sinistri sentieri. Come erano saluti più in alto di quanto l'umanità potesse sognare, così si inabissarono più in basso dei più pazzi incubi dell'uomo. Morirono velocemente, per il cannibalismo e orribili lotte intestine combattute nelle tenebre della giungla notturna. E infine nelle rovine coperte d'erbacce della loro città si aggirò solo un'ultima figura, una rachitica orrenda perversione della natura.
E allora per la prima volta comparvero gli esseri umani: uomini dalla pelle scura, dal volto aquilino, in corazze di rame e di cuoio, armati d'arco: i guerrieri della Stygia preistorica. Erano solo una cinquantina, ed erano magri e sparuti per l'inedia e gli sforzi prolungati, sporchi e graffiati dal girovagare nella giungla, con fasciature lorde di sangue rappreso che narravano di una feroce battaglia. Nelle loro menti c'era una storia di guerra e disfatta, e di fuga davanti a una tribù più forte che li aveva spinti verso meridione, finché non s'erano persi nel verde oceano della giungla e del fiume.
Esausti, si erano distesi tra le rovine, dove boccioli rossi che fioriscono una volta ogni cento anni ondeggiavano nella luna piena, e il sonno li aveva colti. Mentre dormivano, un'orribile figura dagli occhi iniettati di sangue era strisciata su di loro dall'ombra e aveva compiuto stani riti spaventosi su ognuno di essi. La luna era alta nel cielo scuro, e dipingeva la giungla di rosso e di nero; sopra i dormienti luccicavano i fiori come macchie di sangue. Poi la luna tramontò e gli occhi del negromante erano gemme rossastre incastonate d'ebano nella notte.
Quando l'alba distese il suo bianco velo sopra il fiume, non c'erano più uomini: solo un orrore peloso e alato, che se ne stava accovacciato in mezzo a un circolo di cinquanta enormi iene maculate, le quali puntavano i grugni tremanti al cielo spettrale e ululavano come anime dannate.
Le scene si seguivano l'una dopo l'altra, sovrapponendosi. C'era confusione di movimento, sovrapposizione di luce e ombre, contro uno sfondo di giungla tenebrosa, rovina di pietra verdastra, e il fiume cupo; negri risalirono il fiume in lunghe imbarcazioni con la prora adorna di teschi ghignanti, o avanzarono di nascosto piegati in due tra gli alberi, lance in mano. Fuggirono urlando nel buio, inseguiti da occhi ardenti e zanne affilate. Gemiti di uomini morenti scossero le ombre: piedi furti si mossero nell'oscurità, occhi vampireschi brillarono rossi. Ci furono sinistri festini sotto la luna, contro il cui disco rossastro si stagliava incessantemente un'ombra a forma di pipistrello.
Poi, d'improvviso, chiaramente scolpita contro quegli squarci, attorno al promontorio coperto di giungla, avanzò all'albeggiare una lunga galea piena di scintillanti figure d'ebano, sulla cui prua c'era un gigante dalla pelle bianca vestito d'acciaio azzurrino.
Fu  questo punto che Conan si rese conto di sognare. Fino ad allora non aveva avuto coscienza della sua esistenza individuale. Ma quando vide se stesso calpestare le tavole della Tigre, riconobbe sia l'esistenza sia il sogno, anche se non si destò.
Mentre se ne meravigliava, la scena cambiò improvvisamente e diventò una radura della giungla dove N'Gora e diciannove lancieri negri erano fermi come in attesa di qualcuno. Mentre si rendeva conto che era lui quello che aspettavano, un orrore scivolò su di loro dal cielo ed essi fuggirono con grida di paura. Come uomini impazziti per il terrore gettarono via le armi e corsero pazzamente per la giungla, inseguiti da vicino dalla mostruosità che batteva le ali sul loro capo.



Caos e confusione seguirono quella visione, durante la quale Conan lottò debolmente per svegliarsi. Gli parve di vedere confusamente se stesso giacere sotto un grappolo ondeggiante di boccioli neri, mentre fra gli arbusti una forma orribile strisciava verso di lui. Con uno sforzo selvaggio, spezzò gli invisibile legami che lo tenevano avvinto al suo sogno e balzò in piedi.

C'era stupore nell'occhiata che si lanciò intorno. Lì vicino ondeggiava il Loto Nero, e si affrettò ad allontanarsi.
Nel terreno spugnoso circostante c'era un'impronta, come di un animale che avesse fatto il primo passo per emergere dai cespugli e poi si fosse ritirato. Pareva l'impronta di una iena incredibilmente grande.
Mandò un grido di richiamo per N'Gora. Un silenzio primordiale si era addensato sulla giungla, e il suo grido risuonò acuto e vuoto come un suono di scherno. Non poteva vedere il sole, ma il suo istinto sviluppatosi nelle zone selvagge gli disse che il giorno si avvicinava alla fine. Avvertì un senso di panico, rendendosi conto che era rimasto privo di sensi per ore intere. Seguì in fretta le tracce dei lancieri, visibili nel terreno molle. Formavano una fila indiana e lo condussero nella radura, dove si fermò di botto, con la schiena percorsa da un brivido, riconoscendo la radura che aveva visto nel sogno procuratogli dal Loto Nero. Scudi e lance giacevano alla rinfusa, come abbandonati in una fuga precipitosa.
E dalle tracce che conducevano fuori dalla radura e si inoltravano nella giungla, Conan seppe che i negri erano fuggiti alla cieca. Le impronte si sovrapponevano, ondeggiando intorno agli alberi. E con sorpresa il cimmero si trovò d'un tratto fuori dalla giungla, su una roccia a montagnola, che si innalzava ripida per fermarsi di colpo a formare un precipizio di una dozzina di metri. E qualcosa era acquattato sull'orlo.
Dapprima Conan pensò che si trattasse di un enorme gorilla nero. Poi vide che si trattava di un negro gigantesco che era accovacciato come un animale con le braccia penzoloni e la schiuma alle labbra. E fino a quando la creatura non sollevò le grandi mani con un grido singhiozzante e si precipitò verso di lui, Conan non riconobbe N'Gora. Il negro non fece caso al grido di Conan, e caricò, con gli occhi che mostravano il bianco, i denti luccicanti, il volto una maschera inumana.
Rabbrividendo per l'orrore che la visione della pazzia provoca nella gente normale, Conan infilzò con la spada il negro; poi, evitando le mani adunche che cercavano di afferrarlo anche mentre N'Gora ricadeva al suolo, il barbaro avanzò fino all'orlo del precipizio.
Per un attimo rimase fermo a guardare le rocce appuntite sottostanti, dove giacevano i lancieri di N'Gora, in pose inerti e distorte che rivelavano membra spezzate e ossa rotte. Nessuno si muoveva.  Una nuvola di grandi mosche nere ronzava sonoramente sopra le pietre macchiate di sangue; le formiche avevano già cominciato a ricoprire i corpi. Sugli alberi circostanti erano appollaiati uccelli da preda, e uno sciacallo, guardando in alto e vedendo l'uomo fermo sul ciglio, si ritirò furtivamente.
Per qualche tempo Conan rimase immobile. Poi girò su se stesso e di corsa tornò indietro, lanciandosi tra l'erba alta e gli arbusti, saltando i rampicanti che si stendevano come serpenti sulla sua strada. La spada gli pesava in pugno e un insolito pallore gli tingeva il volto abbronzato.
Il silenzio che regnava nella giungla rimaneva ininterrotto. Il sole era tramontato e grandi ombre balzavano dal fango del suolo nero. Attraverso le ombre gigantesche di morte in agguato e di sinistra desolazione, Conan era uno scintillio veloce di scarlatto e acciaio azzurrino. Non si sentiva alcun suono, in quella solitudine, tranne il suo rapido ansimare quando sbucò dall'ombra nell'indistinto crepuscolo della riva del fiume.
Vide la galea accostata al molo, e le rovine alzarsi come ubriache nella grigia mezza luce.
E qua e là fra le pietre c'erano macchie di colore brillante, come se una mano incurante le avesse sporcate con un pennello scarlatto.
Ancora una volta Conan aveva davanti agli occhi morte e distruzione. Davanti a lui giacevano i suoi lancieri, e non si alzarono ad accoglierlo. Dal margine della giungla alla riva del fiume, fra le colonne e le banchine in rovina, essi giacevano, maciullati, straziati e semidivorati, smozzicate caricature d'uomini.
Tutt'attorno ai corpi e ai pezzi di corpi c'era una quantità di gigantesche impronte di zampe, simili a quelle delle iene.
Conan avanzò silenziosamente sulla banchina, avvicinandosi alla galea; sopra il ponte era sospeso qualcosa che luccicava bianco come avorio nella debole luce del crepuscolo. Senza parole il ciimmero guardò la Regina della Costa Nera penzolare dal pennone della sua stessa nave. Fra il pennone e la gola si stendeva una fila di grumi rossi che brillavano come sangue nella luce grigiastra.






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