Fu un sogno portato dal Loto Nero?
Allora sia maledetto il sogno che comprò la mia vita pigra;
E maledetta ogni lenta ora che non vede
Caldo sangue gocciolare scuro dal coltello arrossato.
Il canto di Bêlit
Dapprima
ci fu l'oscurità del vuoto completo, con i venti freddi dello spazio
cosmico che lo percorrevano. Poi forme vaghe, mostruose ed evanescenti,
rotolarono in un oscuro panorama attraverso una distesa di nulla, come
se l'oscurità acquistasse forma materiale. I venti soffiarono e si formò
un vortice, una piramide roteante di tenebra ruggente. Da esso crebbero
forma e dimensione; poi all'improvviso, come nuvole che si disperdano,
l'oscurità rotolò via da ogni lato ed una gigantesca città di pietra
color verde scuro sorse sulla riva di un ampio fiume che scorreva in una
piana illimitata. In questa città si mossero esseri dalle forme aliene.
Fatti
ad immagine dell'umanità, erano distintamente non umani. Erano alati e
proporzioni grandiose; non erano un ramo del misterioso albero
dell'evoluzione culminante nell'uomo, ma il fiore aperto di un albero
ignoto, separato e diverso dal primo. A parte le ali, nell'aspetto
fisico somigliavano agli uomini come in uomo nella pienezza del suo
aspetto assomiglia alle grandi scimmie. Per quanto riguarda lo sviluppo
spirituale, estetico ed intellettuale, erano superiori all'uomo quanto
l'uomo lo è al gorilla. Ma quando innalzarono la loro colossale città, i
primi antenati dell'uomo non erano ancora sorti dal limo dei mari
primordiali.
Quegli esseri erano mortali, come lo sono tutte le
cose fatte di sangue e di carne. Vivevano, amavano e morivano, anche se
la durata individuale della loro vita era enorme. Poi, dopo innumerevoli
milioni di anni, il Cambiamento ebbe inizio. Il panorama splendette ed
ondeggiò, cime un ombra proiettata come un'ombra proiettata contro una
tenda svolazzante. Sulla città e sul paese le ere fluirono come onde
sulla spiaggia, ed ogni onda portò modifiche. In qualche punto del
pianeta i poli magnetici si spostarono: i grandi ghiacciai e le banchise
si ritrassero verso i nuovi poli.
Il litorale del grande fiume
cambiò. Le pianure si mutarono in paludi mefitiche abitate da rettili.
Dove c'erano praterie, adesso s'innalzavano foreste che mutavano in
giungle umide. E gli anni del mutamente operarono anche sugli abitanti
della città. Essi non migrarono verso terre più fresche. Motivi
inspiegabili per l'umanità li trattennero nell'antica città,
consegnandoli alla rovina. E come le terre un tempo ricche e potenti
affondavano sempre più nel nero pantano della giungle senza sole, così
il popolo della città affondò nel caos della vita sbraitante della
giungla. Terrificanti convulsioni scossero la terra; le notti
riflettevano vulcani in eruzione che orlavano l'orizzonte buio come
colonne rossastre.
Dopo un terremoto che fece crollare le mura
esterne e le più alte torri della città e fece diventare nera per giorni
l'acqua del fiume, a causa di qualche sostanza letale generata dagli
abissi sotterranei, un terribile cambiamento chimico divenne manifesto
nelle acque che la gente aveva bevuto per incalcolabili millenni.
Molti
morirono, e in quelli che sopravvissero si produsse un cambiamento
sottile, graduale ed orribile. Adattandosi alle mutate condizioni, erano
sprofondati molto al di sotto del loro livello originale. Ma le acque
letali li alterarono in maniera ancora più orribile, di generazione in
generazione, bestialmente. Quelli che erano stati Dèi alati divennero
Demoni, e i resti della vasta conoscenza dei loro antenati divennero
distorti, pervertiti e deviati verso sinistri sentieri. Come erano
saluti più in alto di quanto l'umanità potesse sognare, così si
inabissarono più in basso dei più pazzi incubi dell'uomo. Morirono
velocemente, per il cannibalismo e orribili lotte intestine combattute
nelle tenebre della giungla notturna. E infine nelle rovine coperte
d'erbacce della loro città si aggirò solo un'ultima figura, una rachitica
orrenda perversione della natura.
E allora per la prima volta
comparvero gli esseri umani: uomini dalla pelle scura, dal volto
aquilino, in corazze di rame e di cuoio, armati d'arco: i guerrieri
della Stygia preistorica. Erano solo una cinquantina, ed erano magri e
sparuti per l'inedia e gli sforzi prolungati, sporchi e graffiati dal
girovagare nella giungla, con fasciature lorde di sangue rappreso che
narravano di una feroce battaglia. Nelle loro menti c'era una storia di
guerra e disfatta, e di fuga davanti a una tribù più forte che li aveva
spinti verso meridione, finché non s'erano persi nel verde oceano della
giungla e del fiume.
Esausti, si erano distesi tra le rovine, dove
boccioli rossi che fioriscono una volta ogni cento anni ondeggiavano
nella luna piena, e il sonno li aveva colti. Mentre dormivano,
un'orribile figura dagli occhi iniettati di sangue era strisciata su di
loro dall'ombra e aveva compiuto stani riti spaventosi su ognuno di
essi. La luna era alta nel cielo scuro, e dipingeva la giungla di rosso e
di nero; sopra i dormienti luccicavano i fiori come macchie di sangue.
Poi la luna tramontò e gli occhi del negromante erano gemme rossastre
incastonate d'ebano nella notte.
Quando l'alba distese il suo
bianco velo sopra il fiume, non c'erano più uomini: solo un orrore
peloso e alato, che se ne stava accovacciato in mezzo a un circolo di
cinquanta enormi iene maculate, le quali puntavano i grugni tremanti al
cielo spettrale e ululavano come anime dannate.
Le
scene si seguivano l'una dopo l'altra, sovrapponendosi. C'era
confusione di movimento, sovrapposizione di luce e ombre, contro uno
sfondo di giungla tenebrosa, rovina di pietra verdastra, e il fiume
cupo; negri risalirono il fiume in lunghe imbarcazioni con la prora
adorna di teschi ghignanti, o avanzarono di nascosto piegati in due tra
gli alberi, lance in mano. Fuggirono urlando nel buio, inseguiti da
occhi ardenti e zanne affilate. Gemiti di uomini morenti scossero le
ombre: piedi furti si mossero nell'oscurità, occhi vampireschi
brillarono rossi. Ci furono sinistri festini sotto la luna, contro il cui
disco rossastro si stagliava incessantemente un'ombra a forma di
pipistrello.
Poi, d'improvviso, chiaramente scolpita contro quegli
squarci, attorno al promontorio coperto di giungla, avanzò
all'albeggiare una lunga galea piena di scintillanti figure d'ebano,
sulla cui prua c'era un gigante dalla pelle bianca vestito d'acciaio
azzurrino.
Fu questo punto che Conan si rese conto di sognare.
Fino ad allora non aveva avuto coscienza della sua esistenza
individuale. Ma quando vide se stesso calpestare le tavole della Tigre, riconobbe sia l'esistenza sia il sogno, anche se non si destò.
Mentre
se ne meravigliava, la scena cambiò improvvisamente e diventò una
radura della giungla dove N'Gora e diciannove lancieri negri erano fermi
come in attesa di qualcuno. Mentre si rendeva conto che era lui quello
che aspettavano, un orrore scivolò su di loro dal cielo ed essi
fuggirono con grida di paura. Come uomini impazziti per il terrore
gettarono via le armi e corsero pazzamente per la giungla, inseguiti da
vicino dalla mostruosità che batteva le ali sul loro capo.
Caos
e confusione seguirono quella visione, durante la quale Conan lottò
debolmente per svegliarsi. Gli parve di vedere confusamente se stesso
giacere sotto un grappolo ondeggiante di boccioli neri, mentre fra gli
arbusti una forma orribile strisciava verso di lui. Con uno sforzo
selvaggio, spezzò gli invisibile legami che lo tenevano avvinto al suo
sogno e balzò in piedi.
C'era stupore nell'occhiata che si lanciò intorno. Lì vicino ondeggiava il Loto Nero, e si affrettò ad allontanarsi.
Nel
terreno spugnoso circostante c'era un'impronta, come di un animale che
avesse fatto il primo passo per emergere dai cespugli e poi si fosse
ritirato. Pareva l'impronta di una iena incredibilmente grande.
Mandò
un grido di richiamo per N'Gora. Un silenzio primordiale si era
addensato sulla giungla, e il suo grido risuonò acuto e vuoto come un
suono di scherno. Non poteva vedere il sole, ma il suo istinto
sviluppatosi nelle zone selvagge gli disse che il giorno si avvicinava
alla fine. Avvertì un senso di panico, rendendosi conto che era rimasto
privo di sensi per ore intere. Seguì in fretta le tracce dei lancieri,
visibili nel terreno molle. Formavano una fila indiana e lo condussero
nella radura, dove si fermò di botto, con la schiena percorsa da un
brivido, riconoscendo la radura che aveva visto nel sogno procuratogli
dal Loto Nero. Scudi e lance giacevano alla rinfusa, come abbandonati in
una fuga precipitosa.
E dalle tracce che conducevano fuori dalla
radura e si inoltravano nella giungla, Conan seppe che i negri erano
fuggiti alla cieca. Le impronte si sovrapponevano, ondeggiando intorno
agli alberi. E con sorpresa il cimmero si trovò d'un tratto fuori dalla
giungla, su una roccia a montagnola, che si innalzava ripida per fermarsi
di colpo a formare un precipizio di una dozzina di metri. E qualcosa
era acquattato sull'orlo.
Dapprima Conan pensò che si trattasse di
un enorme gorilla nero. Poi vide che si trattava di un negro gigantesco
che era accovacciato come un animale con le braccia penzoloni e la
schiuma alle labbra. E fino a quando la creatura non sollevò le grandi
mani con un grido singhiozzante e si precipitò verso di lui, Conan non
riconobbe N'Gora. Il negro non fece caso al grido di Conan, e caricò,
con gli occhi che mostravano il bianco, i denti luccicanti, il volto una
maschera inumana.
Rabbrividendo per l'orrore che la visione della
pazzia provoca nella gente normale, Conan infilzò con la spada il negro;
poi, evitando le mani adunche che cercavano di afferrarlo anche mentre
N'Gora ricadeva al suolo, il barbaro avanzò fino all'orlo del
precipizio.
Per un attimo rimase fermo a guardare le rocce
appuntite sottostanti, dove giacevano i lancieri di N'Gora, in pose
inerti e distorte che rivelavano membra spezzate e ossa rotte. Nessuno
si muoveva. Una nuvola di grandi mosche nere ronzava sonoramente sopra
le pietre macchiate di sangue; le formiche avevano già cominciato a
ricoprire i corpi. Sugli alberi circostanti erano appollaiati uccelli da
preda, e uno sciacallo, guardando in alto e vedendo l'uomo fermo sul
ciglio, si ritirò furtivamente.
Per qualche tempo Conan rimase
immobile. Poi girò su se stesso e di corsa tornò indietro, lanciandosi
tra l'erba alta e gli arbusti, saltando i rampicanti che si stendevano
come serpenti sulla sua strada. La spada gli pesava in pugno e un
insolito pallore gli tingeva il volto abbronzato.
Il silenzio che
regnava nella giungla rimaneva ininterrotto. Il sole era tramontato e
grandi ombre balzavano dal fango del suolo nero. Attraverso le ombre
gigantesche di morte in agguato e di sinistra desolazione, Conan era uno
scintillio veloce di scarlatto e acciaio azzurrino. Non si sentiva
alcun suono, in quella solitudine, tranne il suo rapido ansimare quando
sbucò dall'ombra nell'indistinto crepuscolo della riva del fiume.
Vide la galea accostata al molo, e le rovine alzarsi come ubriache nella grigia mezza luce.
E
qua e là fra le pietre c'erano macchie di colore brillante, come se una
mano incurante le avesse sporcate con un pennello scarlatto.
Ancora
una volta Conan aveva davanti agli occhi morte e distruzione. Davanti a
lui giacevano i suoi lancieri, e non si alzarono ad accoglierlo. Dal
margine della giungla alla riva del fiume, fra le colonne e le banchine
in rovina, essi giacevano, maciullati, straziati e semidivorati,
smozzicate caricature d'uomini.
Tutt'attorno ai corpi e ai pezzi di corpi c'era una quantità di gigantesche impronte di zampe, simili a quelle delle iene.
Conan
avanzò silenziosamente sulla banchina, avvicinandosi alla galea; sopra
il ponte era sospeso qualcosa che luccicava bianco come avorio nella
debole luce del crepuscolo. Senza parole il ciimmero guardò la Regina
della Costa Nera penzolare dal pennone della sua stessa nave. Fra il
pennone e la gola si stendeva una fila di grumi rossi che brillavano
come sangue nella luce grigiastra.
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