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Le ombre erano nere intorno a lui,
Le schiumanti zanna si aprivano,
Più fitto della pioggia cadeva il sangue;
Ma il mio amore era più forte dalla Morte,
E tutte le mura di ferro dell'Inferno
Non potevamo tenermi lontano da lui.
Il canto di Bêlit
La
giungla era un nero colosso che rinserrava tra le sue braccia d'ebano
la spianata ricoperta di rovine. La luna non era ancora sorta; le stelle
erano scintille di ambra rovente, in cielo senza respiro che puzzava di
morte. Sulla piramide che sorgeva tra le torri crollate, Conan il
Cimmero sedeva come una statua di ferro, con il mento appoggiato ai
pugni massicci. Ai margini della radura, fra ombre tenebrose, taciti
piedi calpestavano il terreno ed occhietti rossi scintillavano. I morti
giacevano insepolti. Ma sul ponte della Tigre, sopra una pira
di panche spezzate, di aste di lancia e di pelli di leopardo, giaceva
nel suo ultimo sonno la regina della Costa Nera, avvolta nel mantello
rosso di Conan. Come una vera regina ella giaceva, con il bottino
ammassato intorno a lei: seta, ricami in filo d'oro, catene d'argento,
casse di gemme e di auree monete, lingotti di metallo prezioso, pugnali
ingemmati.
Ma dove il bottino della città maledetta giacesse soltanto le acque stagnanti del fiume Zarkheba avrebbero potuto
rivelarlo, nel punto dove Conan lo aveva gettato con barbariche
imprecazioni. Ora il barbaro sedeva trucemente sulla piramide, in attesa
degli invisibili nemici. La nera furia del suo cuore aveva scacciato
ogni paura. Non sapeva quali forme sarebbero emerse dall'oscurità, né
voleva saperlo.
Non aveva più dubbi sulle visioni del Loto Nero.
Comprendeva che, mentre lo attendevano nella radura, N'Gora ed i suoi
compagni erano impazziti per il terrore del mostro alato che scendeva su
di loro dal cielo, e che, fuggendo in preda al panico più cieco, erano
precipitati nel burrone; tutti ad eccezione del loro capo, il quale era
riuscito in qualche modo ad evitarne il destino, ma non era sfuggito
alla follia. E nello stesso tempo, o immediatamente dopo, o poco prima,
c'era stato il massacro di coloro che erano rimasti sulla riva del
fiume. Conan non dubitava che la battaglia lungo il fiume fosse stata
più un massacro che non un combattimento; già debilitati dalla loro
superstiziosa paura, forse i negri erano morti senza poter sferrare
neppure un colpo a propria difesa, quando erano stati attaccati dai
loro nemici inumani.
Non capiva perché lui fosse stato risparmiato
fino a quel momento, a meno che la maligna entità che dominava il fiume
non intendesse tenerlo in vita per tormentarlo con la paura e col
rimpianto. Tutto pareva indicare un'intelligenza umana o sovrumana: la
rottura dei recipienti dell'acqua per dividere le forze, l'aver sospinto
i negri verso il precipizio nascosto, e, ultima massima beffa, la
collana scarlatta legata intorno al bianco collo di Bêlit, come il
cappio del boia.
Ed essendosi riservato il cimmero come ultima e
più preziosa vittima, ed avendo spremuto da lui fino all'ultima goccia
una sottile tortura mentale, era probabile che il nemico invisibile
volesse concludere il dramma facendogli fare la fine dei compagni. A
questo pensiero, nessun sorriso piegò le labbra risolute di Conan: solo i
suoi occhi si accesero di un sinistro lucore.
La luna si alzò,
scintillando come fuoco sull'elmetto adorno di corna che il cimmero
portava sul capo. Nessun grido destò un eco; eppure d'improvviso, la
notte fu carica di tensione, e la giungla trattenne il respiro.
Istintivamente, Conan liberò il fermo della spada, ancora infilata nel
fodero. La piramide sulla quale sedeva aveva quattro facce, e una di
esse - la faccia rivolta alla giungla - era costituita da un'ampia
scalinata. Teneva in mano un arco shemita, come quelli che Bêlit faceva
usare ai suoi pirati. Ai suoi piedi giaceva un mucchietto di frecce, con
la cocca rivolta nella sua direzione, e lui era inginocchiato su una
gamba sola.
Qualcosa si mosse nell'oscurità sotto gli alberi.
Stagliate d'improvviso sullo sfondo della luna che s'innalzava, Conan
vide una testa oscura ed un paio di spalle dal profilo animalesco. E poi
dall'ombra si fecero avanti silenziosamente, rapidamente, alcune forme
scure che correvano basse: venti enormi iene maculate. Le loro zanne
schiumanti lampeggiavano al chiarore lunare, i loro occhi brillavano
come mai avevano brillato gli occhi di un animale vero.
Erano
venti: dunque le lance dei pirati avevano fatto vittime tra il branco,
dopotutto. E mentre così pensava, Conan si portò la cocca accanto
all'orecchio: al colpo sordo dell'arco, un ombra dagli occhi di fiamma
fece un balzo altissimo e ricadde a terra contorcendosi. Le altre ombre
non si fermarono; continuarono ad avanzare, e fra di loro, come una
pioggia di morte, piombarono le frecce del cimmero, cariche di tutta la
forza e la precisione di muscoli d'acciaio sorretti da un odio rovente
come le fiamme dell'inferno.
Nella furia della battaglia, Conan
non mancò il bersaglio: l'aria fu piena di mortali asticciole pennute.
Il massacro provocato tra il branco che correva verso di lui era
sorprendente. Meno di metà degli animali raggiunse i piedi della
piramide. Altri caddero sui suoi ampi gradini. E abbassando lo sguardo
sui loro occhi brucianti, Conan seppe che quelle creature non erano
bestie; avvertiva in loro un'empia differenza, e non soltanto perché
erano una taglia innaturale. Trasudavano un'aura tangibile, come la
nebbia scura che s'innalzava da una palude coperta di cadaveri. Non
avrebbe saputo dire quale blasfema alchimia avesse messo al mondo quelle
creature; ma sapeva di avere davanti a sé un'opera diabolica, più nera
dei Pozzi di Skelos.
Balzando in piedi, curvò poderosamente l'arco
e cacciò la sua ultima freccia, senza mirare, nel ventre di una grossa
forma pelosa che si avventava contro la sua gola. Come un raggio di
luna, la freccia guizzò in avanti, senza il minimo tremito nella
traiettoria, e la bestia mannara si contorse in convulsioni, a
mezz'aria, e ricadde a terra trapassata da parte a parte.
Poi il
resto del branco fu su di lui, in una folle, spasmodica corsa di occhi
di fiamma e di fauci schiumanti. La sua spada feroce tagliò in due il
primo animale, poi gli altri gli furono sopra, e con il loro urto
disperato lo trascinarono a terra. Spaccò un cranio allungato con il
pomo dell'elsa: sentì scheggiarsi l'osso, il sangue ed il cervello
sporcargli la mano. Poi, lasciata cadere a terra la spada ormai
inutilizzabile in un corpo a corpo, cercò di afferrare, una per mano,
due gole dei mostri che cercavano di morderlo con furia muta.
Un odore acre e malsano lo assalì, il suo stesso sudore gli bruciò gli
occhi. Solo la cotta di maglia poté evitargli di essere fatto a pezzi in
un istante. La sua mano destra, nuda, si serrò su una gola pelosa e la
squarciò. La mano sinistra mancò la gola dell'altra bestia, ma riuscì
tuttavia ad afferrare la zampa e spezzargliela. Un breve guaito - unico
grido in quella cupa battaglia: un grido orrendamente simile a quello di
un uomo - uscì dalle fauci della bestia ferita. Di fronte all'orrore
sconvolgente di quel grido scaturito da una strozza bestiale, Conan
involontariamente allargò le dita.
Una delle due bestie, con il
sangue che sprizzava dalla giugulare strappata, balzò contro di lui in
un ultimo sussurro di ferocia, e strinse le zanne sulla sua gola...per
subito ricadere all'indietro, morta, nello stesso momento in cui Conan
avvertiva il dolore lacerante del morso.
L'altra, balzando in
avanti su tre zampe, cercò di mordergli l'addome come un lupo, e gli
squarcio gli anelli della maglia. Spingendo via la bestia morente, Conan
afferrò il mostro azzoppato, e, con uno sforzo che destò un grugnito
sulle sue labbra macchiate di sangue, lo sollevò di peso, stringendolo
tra le braccia mentre ancora cercava di divincolarsi e di mordere. Per
un istante Conan barcollò, rischiando di perdere l'equilibrio, quando il
respiro fetido e rovente della bestia gli ferì le nari, e le sue fauci
cercarono di morderli il collo; poi la scagliò lontano da sé,
precipitandola sui gradini a schiantarsi le ossa.
E mentre
oscillava sulle gambe, aperte al massimo per avere un più fermo
appoggio, e ansimava, e la giunga e la luna ondeggiavano in un velo
rossastro sotto il suo sguardo, ai suoi orecchi giunse un forte battito
di ali di pipistrello. Si chinò ad afferrare la spada, ed una volta
raddrizzatosi, si rimise saldo sulle gambe e sollevò la grossa lama al
di sopra della testa, con entrambe le mani, cercando di scuotersi dagli
occhi il velo sanguigno, mentre scrutava l'aria alla ricerca del nemico
volante.
Ma invece di un assalto dell'aria, fu al piramide a
barcollare improvvisamente, sinistramente sotto di lui. Udì un crepitio
forte come quello del tuono, e vide ondeggiare sopra di sé l'alta
colonna, come un bastone agitato da una mano possente. Spronato a una
frenetica azione, fece un balzo ciclopico; il suo piede incontrò un
gradino, a metà della discesa, che ondeggiò sotto di lui, ma il secondo,
disperato balzo lo portò fuori pericolo. E proprio mentre il suo piede
incontrava il terreno, la piramide crollò su se stessa con uno schianto
fragoroso, simile a quello di una montagna squarciata; poi, con rombo di
tuono, anche la colonna precipitò in mille frammenti. Per un cieco
catastrofico istante, frammenti di marmo parvero piombare dal cielo.
Infine, solo una distesa di frantumi di pietra rimase a giacere bianca e
immota sotto i raggi della luna.
Conan si scosse, liberandosi dai
cocci che lo coprivano per metà. Un colpo di striscio gli aveva tolto
di testa l'elmetto, e per un attimo l'aveva stordito. Sulle sue gambe
posava un grosso frammento di colonna, che lo teneva inchiodato al
suolo. Temette di essersi spezzato le gambe. La sua chioma corvina era
impastata di sudore; un fiotto di sangue scendeva dalle ferite alla
gola ed alle mani. Cercò di sollevarsi su un braccio, allontanando le
schegge di marmo che lo coprivano.
Poi qualcosa si stagliò sullo
sfondo delle stelle, toccando terra a poca distanza da lui. Volgendo il
capo da quella parte, lo vide...il Demone alato!
Il
Demone si stava precipitando contro di lui con spaventosa rapidità, e in
quell'istante Conan ebbe solo la confusa impressione di una forma
gigantesca, simile a quella umana, che si muoveva su gambe curve e
tozze; di enormi, difformi braccia allargate, di mani dagli artigli
neri; di una testa deforme, nella cui larga faccia era riconoscibile un
solo connotato: gli occhi iniettati di sangue. Non era né uomo, né
bestia, né Demone: era un miscuglio di tratti subumani e sovrumani
insieme.
Conan non ebbe tempo di formulare un pensiero razionale,
logico. Si gettò verso la spada che gli era sfuggita di mano ma le sue
dita non riuscirono a raggiungerla. Disperatamente, afferrò il frammento
che gli bloccava le gambe, e le vene si gonfiarono sulle sue tempie
quando cercò. Si spostava, ma con lentezza, ed era sicuro che il mostro
lo avrebbe raggiunto prima che potesse liberarsi: e quelle mani unghiute
erano la morte certa.
La corsa della creatura alata non s'era
fermata. Ora torreggiava come un'ombra nera sulla forma prostrata del
cimmero, e allargava le braccia...quand'ecco una bianca figura guizzare
tra il mostro e la vittima.
In un folle istante era accorsa... una forma bianca e tesa, vibrante di
un amore feroce come quello di una pantera. L'attonito cimmero vide,
tra sé e la morte, la sottile figura di lei, luccicante come avorio ai
raggi della luna; vide la fiamma dei suoi occhi neri, la spessa corona
dei suoi capelli d'ebano; il suo petto si sollevava, le sue labbra rosse
erano dischiuse. Lanciò un grido acuto, echeggiante come l'acciaio,
gettandosi contro il petto del mostro alato.
«Bêlit!»,
urlò Conan. Lei lanciò un'occhiata rapidissima nella sua direzione, e
negli occhi scuri comparvero le fiamme del suo amore: qualcosa di nudo
ed elementare, fatto di fuoco grezzo e di lava fusa. Poi scomparve, ed
il cimmero vide solo il Demone alato, che si era tratto indietro, con
inusitata paura, e sollevava le braccia come per difendersi da un
assalto. E lui seppe che Bêlit adesso giaceva sulla sua pira, a bordo
della Tigre. Nella mente gli echeggiarono le sue parole
appassionate: «Se io fossi nell'immortalità della morte, e tu stessi
lottando per la vita, tornerei indietro dall'abisso per aiutarti...».
Con
un urlo terribile, Conan sollevò la pietra, scagliandola di lato. Il
mostro alato tornò a buttarsi su di lui, ed il cimmero balzò in piedi
per affrontarlo, con le vene infiammate dalla follia. I muscoli si
tesero come corde d'acciaio sulle sue braccia, quando brandì la grande
spada e ruotò le caviglie per la violenza del'arco descritto dalla lama.
Poco al di sopra dei fianchi la lama colpì la forma che si precipitava
contro Conan, e le gambe tozze caddero da una parte, il torso da
un'altra, quando la spada tagliò in due tronconi, nettamente, il corpo
coperto di pelo.
Conan rimase immobile nel silenzio illuminato
dalla luna, e la lama sporca di sangue divenne pesante nella sua mano. I
suoi occhi si posarono sui resti del nemico. Gli occhi rossi lo
fissarono ancora, arroventati da una terribile vitalità, poi si velarono
e non si mossero più; le grandi mani si tesero spasmodicamente, ed
infine si irrigidirono. Così si estinse la più antica razza del mondo.
Il
barbaro alzò lo sguardo, cercando meccanicamente gli animali che erano
gli schiavi ed i carnefici dell'orrore alato. Ma nessuno di essi si
presentò alla sua vista. I corpi ch'egli vide, stesi sull'erba
illuminata dal chiarore lunare, erano corpi umani, e non di bestie:
uomini dal viso grifagno e dalla pelle nera, nudi, trafitti da frecce o
fatti a pezzi da colpi di spada. E sotto i suoi occhi diventarono
polvere.
Perché il padrone alato non era giunto in soccorso dei
suoi schiavi, quando lui aveva lottato con loro? Aveva avuto paura di
giungere alla portata di zanne che gli si sarebbero potute rivoltare
contro per farlo a brani? Astuzia e circospezione avevano dimorato in
quel cranio deforme, ma in definitiva non gli erano stati di molto
giovamento.
Girando sui tacchi, il cimmero si avviò verso il molo
decrepito e salì a bordo della nave. Con alcuni colpi di spada recise
gli ormeggi, e si recò a poppa. La Tigre boccheggiò piano
sull'acqua sonnolenta, scivolando torpidamente verso il centro del
fiume, finché non fu presa dalla corrente centrale. Conan si appoggiò al
timone, ed il suo sguardo dolente si fermò a lungo sulla forma che.,
avvolta in un rosso mantello, giaceva sulla pira funeraria, in mezzo a
ricchezze che sarebbero state sufficienti a riscattare un'imperatrice.