lunedì 29 giugno 2020

Ettore Petrolini: sbeffeggiare la vita, la morte e la società con la potenza di una risata

Ettore Petrolini: sbeffeggiare la vita, la morte e la società con la potenza di una risata


ACCADDE OGGI – Morì il 29 Giugno 1936. A lui si deve la storica ‘Na gita a li Castelli’, ma anche personaggi straordinariamente moderni come ‘Nerone’
ilmamilio.it 
"Adesso sì che so fritto". L'ironia di Ettore Petrolini non mancò fino agli ultimi giorni della sua vita, nemmeno quando arrivò a trovarlo il sacerdote, munito di olio santo, per impartirgli l'estrema unzione. Si spense all’età di 52 anni, il giorno di San Pietro e San Paolo, festa patronale della sua amata Capitale. “Ha voluto esse de Roma puro all'urtimo de la vita”, commentò Trilussa.
Petrolini fu il primo comico moderno, un abilissimo manipolatore del ‘nonsense’. Aveva un carattere complicato. E’ stato uno dei più feroci critici delle mode e della cultura un po' decadente e dannunziana che girava tra i salotti della sua epoca. Ne riprendeva i personaggi, i gesti di maniera, ne sbeffeggiava i divi. ‘Gastone’, ad esempio, era nato proprio per questo proposito. Aveva avuto un padre fabbro, un nonno falegname. Ed anche lui era stato artigiano di se stesso. Non aveva maestri, non ebbe eredi.
Tra riformatori e un’adolescenza abbastanza turbolenta, Petrolini debuttò in un café-chantant, il Gambrinus in piazza Termini, nel 1903, con lo pseudonimo di Ettore Loris. La sua gioventù o quella vista negli altri gli aveva ispirato la figura di ‘Giggi er bullo’. Si dimenava artisticamente, in quei primi anni, tra fenomeni da baraccone e un pubblico che buttava le bucce dei lupini sul palcoscenico. Egli inscenava la stupidità, ma era un metodo studiato per essere irriverente.
In pochi anni la sua popolarità crebbe smisuratamente. I salamini, le parodie, i trionfi in Sud America, Parigi, Londra, Berlino, Vienna. Marinetti di lui scrisse che il suo era ‘puro umorismo futurista’. ‘Egli – affermò - uccide con i suoi lazzi il non mai abbastanza ucciso chiaro di luna’. Ma Petrolini, con il suo stile, il futurismo teatrale lo aveva persino anticipato. Quando l’avanguardia artistica esplose nelle platee di mezza Italia, l'attore romano, nato in Via Giulia, si sentì a suo agio. I versi ‘maltusiani’ furono, ad esempio, una delle mode letterarie che gravitavano attorno alla rivista Lacerba, di Soffici e Papini. Lui li utilizzò per un'autocelebrazione caustica: ‘Petrolini è quella cosa /che ti burla in ton garbato,/poi ti dice: ti à piaciato?/se ti offendi se ne freg’. Il genere era detto "maltusiano" per una chiara allusione alle teorie di Thomas R. Malthus, sostenitore della necessità della limitazione delle nascite. Visto che il metodo anticoncezionale più ricorrente era il ‘coito interrotto’, certi versi avevano la caratteristica di concludersi, appunto, troncando l'ultima parola dell'ultimo verso.
Con il Regime fascista, che sopraggiunse quando lui era già un mito assoluto, non ebbe particolari problemi. Ebbe buoni rapporti con Galeazzo Ciano, Giuseppe Bottai o Italo Balbo. Si corrispose con Mussolini. Molti critici hanno visto nel suo ‘Nerone’ una sorta di macchietta irrisoria della ‘romanità’ amata dal fascismo e persino della figura del Duce. Non era così. Il personaggio era stato creato nel 1917 ed era stata pensata per burlarsi del potere e di chi se ne fa gloria, ma anche di certi filmoni storici in costume dell’era del muto. Sbeffeggiare e smitizzare era però il suo codice. Lo fece anche per le allusioni del caso Girolimoni, una terribile storia di omicidi di minori che aveva messo in allarme il regime e che colpevolizzò un innocente. Ottenne a Palazzo Venezia una onorificenza. “E io me ne fregio!”, esclamò, parafrasando il motto fascista ‘Me ne frego’. Se il Petrolini uomo ebbe dunque un rapporto tutto sommato mai contrario al regime, l’artista fu sicuramente poco convenzionale. E ne pagò le conseguenze sul piano dei riconoscimenti ufficiali. Non venne mai nominato, ad esempio, nell'Accademia d'Italia.
Gastone, Giggi er Bullo, Er sor Capanna, Fortunello furono tutte creature che gli consentirono di prendere in giro ogni strato sociale: il popolo, i borghesi, gli attori. In "Chicchignola” raccontò la storia di un uomo onesto che tirava avanti costruendo e vendendo giocattoli su un carrettino per le strade di Roma dopo un licenziamento. E’ una persona perbene, così i furbi e i mascalzoni lo reputano un cretino capace di subire ogni torto o inganno, fino ad essere tradito dalla propria amante, Eugenia, col suo migliore amico. L’opera descrive il degrado di una certa umanità, raccontando una perdita di valori generalizzata in cui inizia ad evidenziarsi l’ascesa dei mediocri sugli onesti.
Petrolini fu un grande monologhista, un notevole ricercatore di linguaggio e della mimica, un campione dell’acida e fastidiosa punzecchiatura che contribuì a rinnovare il gusto del pubblico. Una maschera potente, un inventore del cabaret moderno, un occhio vigile e sarcastico della società in cui viveva.
Costretto ad abbandonare le scene nel 1935 per una forma di angina pectoris, morì all'età di 52 anni il 29 giugno 1936. In punto di morte, racconta un aneddoto, alle parole incoraggianti di un amico che sosteneva di trovarlo meglio del solito, egli rispose: “Meno male, così moro guarito”. Una cultura popolare geniale.
Fu il protagonista di molti successi musicali. ‘Una gita a li castelli’, scritta da Franco Silvestri, raggiunse una grande popolarità, così come ‘Tanto pe' cantà’, che divenne immediatamente il ritratto di una certa romanità. Era un artista straordinariamente attuale, affascinato dagli altri. Pensava e faceva pensare. “Leggo anche dei libri, molti libri: ma ci imparo meno che dalla vita - disse- Un solo libro mi ha molto insegnato: il vocabolario. Oh, il vocabolario, lo adoro. Ma adoro anche la strada, ben più meraviglioso vocabolario”.

domenica 21 giugno 2020

La Regina della Costa Nera - 5

5



Ora abbiamo finito di navigare, per sempre.
Basta con i remi, il vento ha finito di soffiare;
La rossa bandiera non impaurirà più la spiaggia;
Azzurra cintura del mondo, ricevi di nuovo
Colei che tu mi donasti.

Il canto di Bêlit

L'alba tingeva di nuovo l'oceano. Un bagliore più rosso illuminava la foce del fiume. 

Conan il Cimmero si appoggiava alla lunga spada, sulla bianca spiaggia, ed osservava la Tigre allontanarsi per il suo ultimo viaggio. 

Gli occhi che contemplavano le distese trasparenti erano spenti. Dalle solitudini azzurre ed agitate delle onde era scomparsa ogni gloria ed ogni meraviglia. Un senso feroce di disgusto lo scosse, quando il suo occhio si posò sui verdi cavalloni che in lontananza sfumavano tra veli rosati di mistero.

Bêlit era giunta dal mare; era stata lei a dare al mare ogni fascino e ogni splendore. Senza di lei, le acque erano soltanto un deserto spoglio, desolato e mortale, che si stendeva dall'uno all'altro polo. Bêlit apparteneva al mare, ed all'eterno mistero del mare lui l'aveva restituita. Non poteva fare altro che questo. Per lui, ora lo splendore azzurro e scintillante delle acque era più repellente che non le alte fronde che si agitavano e bisbigliavano alle sue spalle, narrandogli di terre selvagge e misteriose che si stendevano al di là: terre in cui preso si sarebbe tuffato.

Nessun marinaio era al timone della Tigre, nessun remo la spingeva fra le verdi acque. Ma un vento forte e pulito gonfiava la sua vela di seta, e, come un cigno che solca il cielo per dirigersi al proprio nido, la nave scivolava veloce nel mare, mentre le fiamme salivano sempre più alte sul suo ponte, lambivano l'albero maestro ed avvolgevano una figura supina, avvolta in un manto scarlatto, sulla pira funeraria.

Così lascio il mondo la Regina della Costa Nera, e Conan, appoggiato alla spada lorda di sangue, rimase immobile e silenzioso finché il rosso bagliore non svanì lontano, tra la caligine azzurrina, e l'alba non dipinse di rosa e d'oro l'oceano.


domenica 14 giugno 2020

La Regina della Costa Nera - 4



4
Le ombre erano nere intorno a lui,
Le schiumanti zanna si aprivano,
Più fitto della pioggia cadeva il sangue;
Ma il mio amore era più forte dalla Morte,
E tutte le mura di ferro dell'Inferno
Non potevamo tenermi lontano da lui.
Il canto di Bêlit

La giungla era un nero colosso che rinserrava tra le sue braccia d'ebano la spianata ricoperta di rovine. La luna non era ancora sorta; le stelle erano scintille di ambra rovente, in cielo senza respiro che puzzava di morte. Sulla piramide che sorgeva tra le torri crollate, Conan il Cimmero sedeva come una statua di ferro, con il mento appoggiato ai pugni massicci. Ai margini della radura, fra ombre tenebrose, taciti piedi calpestavano il terreno ed occhietti rossi scintillavano. I morti giacevano insepolti. Ma sul ponte della Tigre, sopra una pira di panche spezzate, di aste di lancia e di pelli di leopardo, giaceva nel suo ultimo sonno la regina della Costa Nera, avvolta nel mantello rosso di Conan. Come una vera regina ella giaceva, con il bottino ammassato intorno a lei: seta, ricami in filo d'oro, catene d'argento, casse di gemme e di auree monete, lingotti di metallo prezioso, pugnali ingemmati.
Ma dove il bottino della città maledetta giacesse soltanto le acque stagnanti del fiume Zarkheba avrebbero potuto rivelarlo, nel punto dove Conan lo aveva gettato con barbariche imprecazioni. Ora il barbaro sedeva trucemente sulla piramide, in attesa degli invisibili nemici. La nera furia del suo cuore aveva scacciato ogni paura. Non sapeva quali forme sarebbero emerse dall'oscurità, né voleva saperlo.
Non aveva più dubbi sulle visioni del Loto Nero. Comprendeva che, mentre lo attendevano nella radura, N'Gora ed i suoi compagni erano impazziti per il terrore del mostro alato che scendeva su di loro dal cielo, e che, fuggendo in preda al panico più cieco, erano precipitati nel burrone; tutti ad eccezione del loro capo, il quale era riuscito in qualche modo ad evitarne il destino, ma non era sfuggito alla follia. E nello stesso tempo, o immediatamente dopo, o poco prima, c'era stato il massacro di coloro che erano rimasti sulla riva del fiume. Conan non dubitava che la battaglia lungo il fiume fosse stata più un massacro che non un combattimento; già debilitati dalla loro superstiziosa paura, forse i negri erano morti senza poter sferrare neppure un colpo  a propria difesa, quando erano stati attaccati dai loro nemici inumani.
Non capiva perché lui fosse stato risparmiato fino a quel momento, a meno che la maligna entità che dominava il fiume non intendesse tenerlo in vita per tormentarlo con la paura e col rimpianto. Tutto pareva indicare un'intelligenza umana o sovrumana: la rottura dei recipienti dell'acqua per dividere le forze, l'aver sospinto i negri verso il precipizio nascosto, e, ultima massima beffa, la collana scarlatta legata intorno al bianco collo di Bêlit, come il cappio del boia.
Ed essendosi riservato il cimmero come ultima e più preziosa vittima, ed avendo spremuto da lui fino all'ultima goccia una sottile tortura mentale, era probabile che il nemico invisibile volesse concludere il dramma facendogli fare la fine dei compagni. A questo pensiero, nessun sorriso piegò le labbra risolute di Conan: solo i suoi occhi si accesero di un sinistro lucore.
La luna si alzò, scintillando come fuoco sull'elmetto adorno di corna che il cimmero portava sul capo. Nessun grido destò un eco; eppure d'improvviso, la notte fu carica di tensione, e la giungla trattenne il respiro. Istintivamente, Conan liberò il fermo della spada, ancora infilata nel fodero. La piramide sulla quale sedeva aveva quattro facce, e una di esse - la faccia rivolta alla giungla - era costituita da un'ampia scalinata. Teneva in mano un arco shemita, come quelli che Bêlit faceva usare ai suoi pirati. Ai suoi piedi giaceva un mucchietto di frecce, con la cocca rivolta nella sua direzione, e lui era inginocchiato su una gamba sola.
Qualcosa si mosse nell'oscurità sotto gli alberi. Stagliate d'improvviso sullo sfondo della luna che s'innalzava, Conan vide una testa oscura ed un paio di spalle dal profilo animalesco. E poi dall'ombra si fecero avanti silenziosamente, rapidamente, alcune forme scure che correvano basse: venti enormi iene maculate. Le loro zanne schiumanti lampeggiavano al chiarore lunare, i loro occhi brillavano come mai avevano brillato gli occhi di un animale vero.
Erano venti: dunque le lance dei pirati avevano fatto vittime tra il branco, dopotutto. E mentre così pensava, Conan si portò la cocca accanto all'orecchio: al colpo sordo dell'arco, un ombra dagli occhi di fiamma fece un balzo altissimo e ricadde a terra contorcendosi. Le altre ombre non si fermarono; continuarono ad avanzare, e fra di loro, come una pioggia di morte, piombarono le frecce del cimmero, cariche di tutta la forza e la precisione di muscoli d'acciaio sorretti da un odio rovente come le fiamme dell'inferno.
Nella furia della battaglia, Conan non mancò il bersaglio: l'aria fu piena di mortali asticciole pennute. Il massacro provocato tra il branco che correva verso di lui era sorprendente. Meno di metà degli animali raggiunse i piedi della piramide. Altri caddero sui suoi ampi gradini. E abbassando lo sguardo sui loro occhi brucianti, Conan seppe che quelle creature non erano bestie; avvertiva in loro un'empia differenza, e non soltanto perché erano una taglia innaturale. Trasudavano un'aura tangibile, come la nebbia scura che s'innalzava da una palude coperta di cadaveri. Non avrebbe saputo dire quale blasfema alchimia avesse messo al mondo quelle creature; ma sapeva di avere davanti a sé un'opera diabolica, più nera dei Pozzi di Skelos.
Balzando in piedi, curvò poderosamente l'arco e cacciò la sua ultima freccia, senza mirare, nel ventre di una grossa forma pelosa che si avventava contro la sua gola. Come un raggio di luna, la freccia guizzò in avanti, senza il minimo tremito nella traiettoria, e la bestia mannara si contorse in convulsioni, a mezz'aria, e ricadde a terra trapassata da parte a parte.
Poi il resto del branco fu su di lui, in una folle, spasmodica corsa di occhi di fiamma e di fauci schiumanti. La sua spada feroce tagliò in due il primo animale, poi gli altri gli furono sopra, e con il loro urto disperato lo trascinarono a terra. Spaccò un cranio allungato con il pomo dell'elsa: sentì scheggiarsi l'osso, il sangue ed il cervello sporcargli la mano. Poi, lasciata cadere a terra la spada ormai inutilizzabile in un corpo a corpo, cercò di afferrare, una per mano, due gole dei mostri che cercavano di morderlo con furia muta.


Un odore acre e malsano lo assalì, il suo stesso sudore gli bruciò gli occhi. Solo la cotta di maglia poté evitargli di essere fatto a pezzi in un istante. La sua mano destra, nuda, si serrò su una gola pelosa e la squarciò. La mano sinistra mancò la gola dell'altra bestia, ma riuscì tuttavia ad afferrare la zampa e spezzargliela. Un breve guaito - unico grido in quella cupa battaglia: un grido orrendamente simile a quello di un uomo - uscì  dalle fauci della bestia ferita. Di fronte all'orrore sconvolgente di quel grido scaturito da una strozza bestiale, Conan involontariamente allargò le dita.
Una delle due bestie, con il sangue che sprizzava dalla giugulare strappata, balzò contro di lui in un ultimo sussurro di ferocia, e strinse le zanne sulla sua gola...per subito ricadere all'indietro, morta, nello stesso momento in cui Conan avvertiva il dolore lacerante del morso.
L'altra, balzando in avanti su tre zampe, cercò di mordergli l'addome come un lupo, e gli squarcio gli anelli della maglia. Spingendo via la bestia morente, Conan afferrò il mostro azzoppato, e, con uno sforzo che destò un grugnito sulle sue labbra macchiate di sangue, lo sollevò di peso, stringendolo tra le braccia mentre ancora cercava di divincolarsi e di mordere. Per un istante Conan barcollò, rischiando di perdere l'equilibrio, quando il respiro fetido e rovente della bestia gli ferì le nari, e le sue fauci cercarono di morderli il collo; poi la scagliò lontano da sé, precipitandola sui gradini a schiantarsi le ossa.
E mentre oscillava sulle gambe, aperte al massimo per avere un più fermo appoggio, e ansimava, e la giunga e la luna ondeggiavano in un velo rossastro sotto il suo sguardo, ai suoi orecchi giunse un forte battito di ali di pipistrello. Si chinò ad afferrare la spada, ed una volta raddrizzatosi, si rimise saldo sulle gambe e sollevò la grossa lama al di sopra della testa, con entrambe le mani, cercando di scuotersi  dagli occhi il velo sanguigno, mentre scrutava l'aria alla ricerca del nemico volante.
Ma invece di un assalto dell'aria, fu al piramide a barcollare improvvisamente, sinistramente sotto di lui. Udì un crepitio forte come quello del tuono, e vide ondeggiare sopra di sé l'alta colonna, come un bastone agitato da una mano possente. Spronato a una frenetica azione, fece un balzo ciclopico; il suo piede incontrò un gradino, a metà della discesa, che ondeggiò sotto di lui, ma il secondo, disperato balzo lo portò fuori pericolo. E proprio mentre il suo piede incontrava il terreno, la piramide crollò su se stessa con uno schianto fragoroso, simile a quello di una montagna squarciata; poi, con rombo di tuono, anche la colonna precipitò in mille frammenti. Per un cieco catastrofico istante, frammenti di marmo parvero piombare dal cielo. Infine, solo una distesa di frantumi di pietra rimase a giacere bianca e immota sotto i raggi della luna.
Conan si scosse, liberandosi dai cocci che lo coprivano per metà. Un colpo di striscio gli aveva tolto di testa l'elmetto, e per un attimo l'aveva stordito. Sulle sue gambe posava un grosso frammento di colonna, che lo teneva inchiodato al suolo. Temette di essersi spezzato le gambe. La sua chioma corvina era impastata di sudore; un fiotto di sangue scendeva dalle ferite alla gola ed alle mani. Cercò di sollevarsi su un braccio, allontanando le schegge di marmo che lo coprivano.
Poi qualcosa si stagliò sullo sfondo delle stelle, toccando terra a poca distanza da lui. Volgendo il capo da quella parte, lo vide...il Demone alato!
Il Demone si stava precipitando contro di lui con spaventosa rapidità, e in quell'istante Conan ebbe solo la confusa impressione di una forma gigantesca, simile a quella umana, che si muoveva su gambe curve e tozze; di enormi, difformi braccia allargate, di mani dagli artigli neri; di una testa deforme, nella cui larga faccia era riconoscibile un solo connotato: gli occhi iniettati di sangue. Non era né uomo, né bestia, né Demone: era un miscuglio di tratti subumani e sovrumani insieme.
Conan non ebbe tempo di formulare un pensiero razionale, logico. Si gettò verso la spada che gli era sfuggita di mano ma le sue dita non riuscirono a raggiungerla. Disperatamente, afferrò il frammento che gli bloccava le gambe, e le vene si gonfiarono sulle sue tempie quando cercò. Si spostava, ma con lentezza, ed era sicuro che il mostro lo avrebbe raggiunto prima che potesse liberarsi: e quelle mani unghiute erano la morte certa.
La corsa della creatura alata non s'era fermata. Ora torreggiava come un'ombra nera sulla forma prostrata del cimmero, e allargava le braccia...quand'ecco una bianca figura guizzare tra il mostro e la vittima.
In un folle istante era accorsa... una forma bianca e tesa, vibrante di un amore feroce come quello di una pantera. L'attonito cimmero vide, tra sé e la morte, la sottile figura di lei, luccicante come avorio ai raggi della luna; vide la fiamma dei suoi occhi neri, la spessa corona dei suoi capelli d'ebano; il suo petto si sollevava, le sue labbra rosse erano dischiuse. Lanciò un grido acuto, echeggiante come l'acciaio, gettandosi contro il petto del mostro alato.

«Bêlit!», urlò Conan. Lei lanciò un'occhiata rapidissima nella sua direzione, e negli occhi scuri comparvero le fiamme del suo amore: qualcosa di nudo ed elementare, fatto di fuoco grezzo e di lava fusa. Poi scomparve, ed il cimmero vide solo il Demone alato, che si era tratto indietro, con inusitata paura, e sollevava le braccia come per difendersi da un assalto. E lui seppe che Bêlit adesso giaceva sulla sua pira, a bordo della Tigre. Nella mente gli echeggiarono le sue parole appassionate: «Se io fossi nell'immortalità della morte, e tu stessi lottando per la vita, tornerei indietro dall'abisso per aiutarti...».
Con un urlo terribile, Conan sollevò la pietra, scagliandola di lato. Il mostro alato tornò a buttarsi su di lui, ed il cimmero balzò in piedi per affrontarlo, con le vene infiammate dalla follia. I muscoli si tesero come corde d'acciaio sulle sue braccia, quando brandì la grande spada e ruotò le caviglie per la violenza del'arco descritto dalla lama. Poco al di sopra dei fianchi la lama colpì la forma che si precipitava contro Conan, e le gambe tozze caddero da una parte, il torso da un'altra, quando la spada tagliò in due tronconi, nettamente, il corpo coperto di pelo.
Conan rimase immobile nel silenzio illuminato dalla luna, e la lama sporca di sangue divenne pesante nella sua mano. I suoi occhi si posarono sui resti del nemico. Gli occhi rossi lo fissarono ancora, arroventati da una terribile vitalità, poi si velarono e non si mossero più; le grandi mani si tesero spasmodicamente, ed infine si irrigidirono. Così si estinse la più antica razza del mondo.
Il barbaro alzò lo sguardo, cercando meccanicamente gli animali che erano gli schiavi ed i carnefici dell'orrore alato. Ma nessuno di essi si presentò alla sua vista. I corpi ch'egli vide, stesi sull'erba illuminata dal chiarore lunare, erano corpi umani, e non di bestie: uomini dal viso grifagno e dalla pelle nera, nudi, trafitti da frecce o fatti a pezzi da colpi di spada. E sotto i suoi occhi diventarono polvere.
Perché il padrone alato non era giunto in soccorso dei suoi schiavi, quando lui aveva lottato con loro? Aveva avuto paura di giungere alla portata di zanne che gli si sarebbero potute rivoltare contro per farlo a brani? Astuzia e circospezione avevano dimorato in quel cranio deforme, ma in definitiva non gli erano stati di molto giovamento.
Girando sui tacchi, il cimmero si avviò verso il molo decrepito e salì a bordo della nave. Con alcuni colpi di spada recise gli ormeggi, e si recò a poppa. La Tigre boccheggiò piano sull'acqua sonnolenta, scivolando torpidamente verso il centro del fiume, finché non fu presa dalla corrente centrale. Conan si appoggiò al timone, ed il suo sguardo dolente si fermò a lungo sulla forma che., avvolta in un rosso mantello, giaceva sulla pira funeraria, in mezzo a ricchezze che sarebbero state sufficienti a riscattare un'imperatrice.


Gli Sposi

Matrimonio Gibo e Marika

12 giugno 1999






Amore puro

12 Giugno 1999

Gibo e Marika sposi






domenica 7 giugno 2020

La Regina della Costa Nera - 3

3


Fu un sogno portato dal Loto Nero?
Allora sia maledetto il sogno che comprò la mia vita pigra;
E maledetta ogni lenta ora che non vede
Caldo sangue gocciolare scuro dal coltello arrossato.
Il canto di Bêlit




Dapprima ci fu l'oscurità del vuoto completo,  con i venti freddi dello spazio cosmico che lo percorrevano. Poi forme vaghe, mostruose ed evanescenti, rotolarono in un oscuro panorama attraverso una distesa di nulla, come se l'oscurità acquistasse forma materiale. I venti soffiarono e si formò un vortice, una piramide roteante di tenebra ruggente. Da esso crebbero forma e dimensione; poi all'improvviso, come nuvole che si disperdano, l'oscurità rotolò via da ogni lato ed una gigantesca città di pietra color verde scuro sorse sulla riva di un ampio fiume che scorreva in una piana illimitata. In questa città si mossero esseri dalle forme aliene.

Fatti ad immagine dell'umanità, erano distintamente non umani. Erano alati e proporzioni grandiose; non erano un ramo del misterioso albero dell'evoluzione culminante nell'uomo, ma il fiore aperto di un albero ignoto, separato e diverso dal primo. A parte le ali, nell'aspetto fisico somigliavano agli uomini come in uomo nella pienezza del suo aspetto assomiglia alle grandi scimmie. Per quanto riguarda lo sviluppo spirituale, estetico ed intellettuale, erano superiori all'uomo quanto l'uomo lo è al gorilla. Ma quando innalzarono la loro colossale città, i primi antenati dell'uomo non erano ancora sorti dal limo dei mari primordiali.
Quegli esseri erano mortali, come lo sono tutte le cose fatte di sangue e di carne. Vivevano, amavano e morivano, anche se la durata individuale della loro vita era enorme. Poi, dopo innumerevoli milioni di anni, il Cambiamento ebbe inizio. Il panorama splendette ed ondeggiò, cime un ombra proiettata come un'ombra proiettata contro una tenda svolazzante. Sulla città e sul paese le ere fluirono come onde sulla spiaggia, ed ogni onda portò modifiche. In qualche punto del pianeta i poli magnetici si spostarono: i grandi ghiacciai e le banchise si ritrassero verso i nuovi poli.
Il litorale del grande fiume cambiò. Le pianure si mutarono in paludi mefitiche abitate da rettili. Dove c'erano praterie, adesso s'innalzavano foreste che mutavano in giungle umide. E gli anni del mutamente operarono anche sugli abitanti della città. Essi non migrarono verso terre più fresche. Motivi inspiegabili per l'umanità li trattennero nell'antica città, consegnandoli alla rovina. E come le terre un tempo ricche e potenti affondavano sempre più nel nero pantano della giungle senza sole, così il popolo della città affondò nel caos della vita sbraitante della giungla. Terrificanti convulsioni scossero la terra; le notti riflettevano vulcani in eruzione che orlavano l'orizzonte buio come colonne rossastre.
Dopo un terremoto che fece crollare le mura esterne e le più alte torri della città e fece diventare nera per giorni l'acqua del fiume, a causa di qualche sostanza letale generata dagli abissi sotterranei, un terribile cambiamento chimico divenne manifesto nelle acque che la gente aveva bevuto per incalcolabili millenni.
Molti morirono, e in quelli che sopravvissero si produsse un cambiamento sottile, graduale ed orribile. Adattandosi alle mutate condizioni, erano sprofondati molto al di sotto del loro livello originale. Ma le acque letali li alterarono in maniera ancora più orribile, di generazione in generazione, bestialmente. Quelli che erano stati Dèi alati divennero Demoni, e i resti della vasta conoscenza dei loro antenati divennero distorti, pervertiti e deviati  verso sinistri sentieri. Come erano saluti più in alto di quanto l'umanità potesse sognare, così si inabissarono più in basso dei più pazzi incubi dell'uomo. Morirono velocemente, per il cannibalismo e orribili lotte intestine combattute nelle tenebre della giungla notturna. E infine nelle rovine coperte d'erbacce della loro città si aggirò solo un'ultima figura, una rachitica orrenda perversione della natura.
E allora per la prima volta comparvero gli esseri umani: uomini dalla pelle scura, dal volto aquilino, in corazze di rame e di cuoio, armati d'arco: i guerrieri della Stygia preistorica. Erano solo una cinquantina, ed erano magri e sparuti per l'inedia e gli sforzi prolungati, sporchi e graffiati dal girovagare nella giungla, con fasciature lorde di sangue rappreso che narravano di una feroce battaglia. Nelle loro menti c'era una storia di guerra e disfatta, e di fuga davanti a una tribù più forte che li aveva spinti verso meridione, finché non s'erano persi nel verde oceano della giungla e del fiume.
Esausti, si erano distesi tra le rovine, dove boccioli rossi che fioriscono una volta ogni cento anni ondeggiavano nella luna piena, e il sonno li aveva colti. Mentre dormivano, un'orribile figura dagli occhi iniettati di sangue era strisciata su di loro dall'ombra e aveva compiuto stani riti spaventosi su ognuno di essi. La luna era alta nel cielo scuro, e dipingeva la giungla di rosso e di nero; sopra i dormienti luccicavano i fiori come macchie di sangue. Poi la luna tramontò e gli occhi del negromante erano gemme rossastre incastonate d'ebano nella notte.
Quando l'alba distese il suo bianco velo sopra il fiume, non c'erano più uomini: solo un orrore peloso e alato, che se ne stava accovacciato in mezzo a un circolo di cinquanta enormi iene maculate, le quali puntavano i grugni tremanti al cielo spettrale e ululavano come anime dannate.
Le scene si seguivano l'una dopo l'altra, sovrapponendosi. C'era confusione di movimento, sovrapposizione di luce e ombre, contro uno sfondo di giungla tenebrosa, rovina di pietra verdastra, e il fiume cupo; negri risalirono il fiume in lunghe imbarcazioni con la prora adorna di teschi ghignanti, o avanzarono di nascosto piegati in due tra gli alberi, lance in mano. Fuggirono urlando nel buio, inseguiti da occhi ardenti e zanne affilate. Gemiti di uomini morenti scossero le ombre: piedi furti si mossero nell'oscurità, occhi vampireschi brillarono rossi. Ci furono sinistri festini sotto la luna, contro il cui disco rossastro si stagliava incessantemente un'ombra a forma di pipistrello.
Poi, d'improvviso, chiaramente scolpita contro quegli squarci, attorno al promontorio coperto di giungla, avanzò all'albeggiare una lunga galea piena di scintillanti figure d'ebano, sulla cui prua c'era un gigante dalla pelle bianca vestito d'acciaio azzurrino.
Fu  questo punto che Conan si rese conto di sognare. Fino ad allora non aveva avuto coscienza della sua esistenza individuale. Ma quando vide se stesso calpestare le tavole della Tigre, riconobbe sia l'esistenza sia il sogno, anche se non si destò.
Mentre se ne meravigliava, la scena cambiò improvvisamente e diventò una radura della giungla dove N'Gora e diciannove lancieri negri erano fermi come in attesa di qualcuno. Mentre si rendeva conto che era lui quello che aspettavano, un orrore scivolò su di loro dal cielo ed essi fuggirono con grida di paura. Come uomini impazziti per il terrore gettarono via le armi e corsero pazzamente per la giungla, inseguiti da vicino dalla mostruosità che batteva le ali sul loro capo.



Caos e confusione seguirono quella visione, durante la quale Conan lottò debolmente per svegliarsi. Gli parve di vedere confusamente se stesso giacere sotto un grappolo ondeggiante di boccioli neri, mentre fra gli arbusti una forma orribile strisciava verso di lui. Con uno sforzo selvaggio, spezzò gli invisibile legami che lo tenevano avvinto al suo sogno e balzò in piedi.

C'era stupore nell'occhiata che si lanciò intorno. Lì vicino ondeggiava il Loto Nero, e si affrettò ad allontanarsi.
Nel terreno spugnoso circostante c'era un'impronta, come di un animale che avesse fatto il primo passo per emergere dai cespugli e poi si fosse ritirato. Pareva l'impronta di una iena incredibilmente grande.
Mandò un grido di richiamo per N'Gora. Un silenzio primordiale si era addensato sulla giungla, e il suo grido risuonò acuto e vuoto come un suono di scherno. Non poteva vedere il sole, ma il suo istinto sviluppatosi nelle zone selvagge gli disse che il giorno si avvicinava alla fine. Avvertì un senso di panico, rendendosi conto che era rimasto privo di sensi per ore intere. Seguì in fretta le tracce dei lancieri, visibili nel terreno molle. Formavano una fila indiana e lo condussero nella radura, dove si fermò di botto, con la schiena percorsa da un brivido, riconoscendo la radura che aveva visto nel sogno procuratogli dal Loto Nero. Scudi e lance giacevano alla rinfusa, come abbandonati in una fuga precipitosa.
E dalle tracce che conducevano fuori dalla radura e si inoltravano nella giungla, Conan seppe che i negri erano fuggiti alla cieca. Le impronte si sovrapponevano, ondeggiando intorno agli alberi. E con sorpresa il cimmero si trovò d'un tratto fuori dalla giungla, su una roccia a montagnola, che si innalzava ripida per fermarsi di colpo a formare un precipizio di una dozzina di metri. E qualcosa era acquattato sull'orlo.
Dapprima Conan pensò che si trattasse di un enorme gorilla nero. Poi vide che si trattava di un negro gigantesco che era accovacciato come un animale con le braccia penzoloni e la schiuma alle labbra. E fino a quando la creatura non sollevò le grandi mani con un grido singhiozzante e si precipitò verso di lui, Conan non riconobbe N'Gora. Il negro non fece caso al grido di Conan, e caricò, con gli occhi che mostravano il bianco, i denti luccicanti, il volto una maschera inumana.
Rabbrividendo per l'orrore che la visione della pazzia provoca nella gente normale, Conan infilzò con la spada il negro; poi, evitando le mani adunche che cercavano di afferrarlo anche mentre N'Gora ricadeva al suolo, il barbaro avanzò fino all'orlo del precipizio.
Per un attimo rimase fermo a guardare le rocce appuntite sottostanti, dove giacevano i lancieri di N'Gora, in pose inerti e distorte che rivelavano membra spezzate e ossa rotte. Nessuno si muoveva.  Una nuvola di grandi mosche nere ronzava sonoramente sopra le pietre macchiate di sangue; le formiche avevano già cominciato a ricoprire i corpi. Sugli alberi circostanti erano appollaiati uccelli da preda, e uno sciacallo, guardando in alto e vedendo l'uomo fermo sul ciglio, si ritirò furtivamente.
Per qualche tempo Conan rimase immobile. Poi girò su se stesso e di corsa tornò indietro, lanciandosi tra l'erba alta e gli arbusti, saltando i rampicanti che si stendevano come serpenti sulla sua strada. La spada gli pesava in pugno e un insolito pallore gli tingeva il volto abbronzato.
Il silenzio che regnava nella giungla rimaneva ininterrotto. Il sole era tramontato e grandi ombre balzavano dal fango del suolo nero. Attraverso le ombre gigantesche di morte in agguato e di sinistra desolazione, Conan era uno scintillio veloce di scarlatto e acciaio azzurrino. Non si sentiva alcun suono, in quella solitudine, tranne il suo rapido ansimare quando sbucò dall'ombra nell'indistinto crepuscolo della riva del fiume.
Vide la galea accostata al molo, e le rovine alzarsi come ubriache nella grigia mezza luce.
E qua e là fra le pietre c'erano macchie di colore brillante, come se una mano incurante le avesse sporcate con un pennello scarlatto.
Ancora una volta Conan aveva davanti agli occhi morte e distruzione. Davanti a lui giacevano i suoi lancieri, e non si alzarono ad accoglierlo. Dal margine della giungla alla riva del fiume, fra le colonne e le banchine in rovina, essi giacevano, maciullati, straziati e semidivorati, smozzicate caricature d'uomini.
Tutt'attorno ai corpi e ai pezzi di corpi c'era una quantità di gigantesche impronte di zampe, simili a quelle delle iene.
Conan avanzò silenziosamente sulla banchina, avvicinandosi alla galea; sopra il ponte era sospeso qualcosa che luccicava bianco come avorio nella debole luce del crepuscolo. Senza parole il ciimmero guardò la Regina della Costa Nera penzolare dal pennone della sua stessa nave. Fra il pennone e la gola si stendeva una fila di grumi rossi che brillavano come sangue nella luce grigiastra.






martedì 2 giugno 2020

Conan il Barbaro - Epico inizio

Quello che non ci uccide, ci rende più forti!

Fra il tempo in cui l'oceano inghiottì l'Atlantide e il sorgere dei figli di Aryas, vi fu un'era aldilà di ogni immaginazione.
L'era in cui visse Conan, destinato a portare la corona ingioiellata di Aquilonia sulla sua fronte inquieta.
Sono io, suo cronista, il solo che può raccontarvi la sua saga.
Lasciate che vi dica di quei giorni di gloriose avventure. 
(Akiro "Il Mago") 

Fuoco e vento provengono dal cielo, dagli dei del cielo, ma è Crom il tuo dio, Crom che vive nella terra.
Un tempo i giganti vivevano nella terra Conan, e nell'oscurità del caos mistificarono Crom e gli sottrassero il mistero dell'acciaio.
Crom si adirò e la terra tremò e fuoco e vento abbatterono quei giganti e scagliarono i loro corpi nelle acque.
Ma nel loro furore gli dei si dimenticarono del segreto dell'acciaio e lo lasciarono sul campo di battaglia, e noi che lo trovammo non siamo che uomini. Né dei, né giganti. Solo uomini.
E il segreto dell'acciaio ha sempre portato con sé un mistero; devi impararne il valore Conan, devi impararne la disciplina.
Perché di nessuno, di nessuno al mondo ti puoi fidare, né uomini, né donne, né bestie.
Di questo solo ti puoi fidare.
(Padre di Conan)


Conan il barbaro è un film del 1982, diretto da John Milius. Ispirata al personaggio fantasy Conan il barbaro, ideato da Robert Ervin Howard sulle pagine di Weird Tales nel 1932, il film ha avuto un seguito (Conan il distruttore, 1984). Il personaggio di Conan venne affidato all'attore di origine austriaca Arnold Schwarzenegger, che proprio con questo film iniziò a farsi conoscere dal grande pubblico. Titolo originale Conan the Barbarian Paese di produzione USA Anno 1982 Durata 128 min Colore colore Audio sonoro Rapporto 2.35 : 1 Genere epico, fantasy, avventura, azione Regia John Milius Soggetto Robert E. Howard Sceneggiatura Oliver Stone, John Milius Produttore Dino De Laurentiis Produttore esecutivo D. Constantine Conte Casa di produzione 20th Century Fox Distribuzione (Italia) 20th Century Fox, Ricci e Marinelli Fotografia Duke Callaghan Montaggio Carroll Timothy O'Meara Effetti speciali Nick Allder Musiche Basil Poledouris Scenografia Ron Cobb Costumi John Bloomfield Trucco José Antonio Sánchez
Interpreti e personaggi Arnold Schwarzenegger: Conan James Earl Jones: Thulsa Doom Max Von Sydow: Re Osric Sandahl Bergman: Valeria Gerry Lopez: Subotai Mako: Akiro "Il Mago" William Smith: Padre di Conan Jack Taylor: Prete Valérie Quennessen: la principessa Corrie Jansen: la strega Jorge Sanz: Conan bambino Nadiuska : madre di Conan Doppiatori italiani Mario Cordova: Conan Carlo Baccarini: Thulsa Doom Marcello Tusco: Re Osric Livia Giampalmo: Valeria Sergio Di Giulio: Subotai Mario Feliciani: Akiro "Il Mago" Franco Odoardi: Padre di Conan Pietro Biondi: Prete Premi Golden Globe 1983: miglior attrice debuttante (Sandahl Bergman) Saturn Awards 1983: miglior attrice (Sandahl Bergman)   fonte wiki