domenica 24 maggio 2020

La Regina della Costa Nera - 1



1
Credimi: i veri germogli si risvegliano in primavera,
L'autunno colora le foglie di fosco fuoco;
Credimi: io mantengo il mio cuore inviolato
Per riversare su un sol uomo il mio caldo desiderio.
Il canto di Bêlit


Gli zoccoli tambureggiarono sulla strada che scendeva ai moli. La gente che si disperse gridando ebbe
soltanto la fuggevole visione di una figura rivestita di maglia d'acciaio su uno stallone nero, con un ampio mantello scarlatto che ondeggiava al vento. Da dietro di lui giunsero le grida e l'acciottolio dell'inseguimento, ma il cavaliere non si guardò alle spalle. Sbucò sui moli e spinse il cavallo ad arrestarsi con un'impennata al limitare di una banchina. I marinai lo guardarono a bocca aperta mentre alzavano i lunghi remi e scioglievano la vela di una galea dalla prua alta e dalla tolda ampia. A prora c'era il capitano, un uomo robusto con la barba nera, occupato a scostare con un arpione la nave dai pali d'ormeggio.

«Chi ti ha invitato a bordo?», urlò con rabbia quando il cavaliere volteggio di sella e con un lungo balzo atterrò dritto nel bel mezzo del ponte.
«Falla partire!», ruggì l'intruso, con un gesto feroce che fece schizzare gocce scarlatte dalla grande spada che reggeva.
«Ma siamo diretti alle coste del Kush!», obiettò il capitano.
«Allora anch'io sono diretto nel Kush! Spingila via, sbrigati!»
L'altro lanciò una rapida occhiata alla strada, dove una piccola schiera di cavalieri correva al galoppo; molto più indietro si affannava a piedi un gruppo di arcieri con la balestra a spalla.
«Hai di che pagarti il viaggio?», chiese il capitano.
«Pago col ferro!», ruggi l'uomo in armatura, brandendo la grande spada che mandava riflessi azzurrini alla luce del sole. «Per Crom, uomo, se non salpi inzupperò questa galea con il sangue del suo equipaggio!»
Il capitano era un buon giudice di uomini. Diede un'occhiata al volto scuro e pieno di cicatrici del guerriero, indurito dalla collera, e urlò un rapido ordine, spingendo con forza contro i pali d'ormeggio. La galea ondeggio nell'acqua chiara e i remi iniziarono a schioccare ritmicamente; poi un soffio di vento gonfiò la vela scintillante. La nave leggera sbandò di colpo di vento, poi prese la rotta come un cigno, acquistano velocità man mano che scivolava sull'acqua.
Sul molo i cavalieri agitarono le spade gridando minacce, ordinarono di far virare di bordo la nave, e urlarono agli arcieri di affrettarsi prima che l'imbarcazione fosse fuori portata delle balestre.
«Lasciali delirare», sogghigno il guerriero con durezza. «Mantienila sulla rotta, mastro timoniere.»
Il capitano scese dal piccolo ponte fra i casseri, passò tra le file dei rematori e salì sul ponte. Lo straniero era lì, con la schiena poggiata all'albero maestro, con gli occhi socchiusi e guardinghi, la spada pronta.
Il marinaio lo guardò con fermezza, attento a non fare la minima mossa verso il lungo coltellaccio che portava alla cintura. Osservò la figura alta, possente, rivestita di un usbergo nero a piastre, lustri gambali, un elmo d'acciaio dai riflessi azzurrini dal quale sporgevano due levigate corna di toro. Dalle spalle protette dalla cotta scendeva il mantello scarlatto, ondeggiante alla brezza marina. Un largo cinturone zigrinato con una fibbia dorata reggeva il fodero dello spadone. Sotto l'eletto ornato di corna, una chioma nera tagliata corta contrastava con lo splendore degli occhi azzurri.
«Se dobbiamo viaggiare insieme», disse il capitano, «sarà meglio essere in pace l'uno con l'altro. Il mio nome è Tito, mastro marinaio patentato dei porti dell'Argos. Sono diretto nel Kush, per barattare con i re negri collane, sete, zucchero e spade dall'elsa di ottone in cambio di avorio, cupra, minerale di rame, schiavi e perle.»
Il guerriero lanciò un'occhiata alle spalle, verso i moli che si allontanavano celermente, dove le figure gesticolavano ancora, impotenti,evidentemente in difficoltà a trovare una barca abbastanza veloce da raggiungere la galea che si allontanava rapida.
«Io sono Conan, un cimmero», rispose. «Sono venuto dall'Argos a cercare lavoro, ma non essendoci guerre in atto, non ho trovato nessuna occupazione a cui potessi dedicarmi.»
«Perchè le guardie ti inseguivano?», chiese Tito. «Non che la cosa mi riguardi, ma forse potrei...»
«Non ho nulla da nascondere», rispose il cimmero. «Per Crom, anche se ho passato un bel po' di tempo tra voi popoli civili, le vostre usanze sono ancora al di là della mia comprensione.
La scorsa notte, in una taverna, un capitano delle Guardie Reali usò violenza alla ragazza di un giovane soldato, che naturalmente lo passo da parte a parte con la spada. Ma pare che ci sia qualche maledetta legge contro l'uccisione delle Guardie Reali, e il ragazzo e la ragazza fuggirono. Si sparse la voce che io ero stato visto con loro, e così stamattina sono stato trascinato a forza in tribunale, e un giudice mi ha chiesto dove si era nascosto il ragazzo. Ho replicato che era mio amico e non potevo quindi tradirlo. Questo non è piaciuto alla Corte, e il giudice ha sprecato un gran mucchio di parole su quello che è il mio dovere verso lo Stato, la società ed altre cose che non comprendo, e mi ha nuovamente chiesto di dire dove era fuggito il mio amico. A questo punto ho cominciato a spazientirmi anch'io, perché avevo già spiegato la situazione.
Ma soffocai l'ira e usai tutta la mia calma, e il giudice urlò che per il mio disprezzo alla Corte mi avrebbe fatto marcire nella più profonda delle segrete finché non avessi tradito il mio amico. A questo punto, vedendo che erano tutti fuori di senno, ho sguainato la spada e ho spaccato in due il cranio del giudice; poi mi sono aperto la strada con la forza, ho trovato lo stallone di un alto ufficiale legato poco lontano, gli sono saltato in groppa e sono corso al porto, dove speravo di trovare una nave diretta verso terre straniere.»
«Ti capisco benissimo!», disse Tito, aspro. «I tribunali mi hanno derubato troppo spesso, in combutta con i ricchi mercanti, perché abbia simpatia nei loro riguardi. Dorò rispondere a delle domande, se mai attraccherò ancora a questo porto, ma posso sempre provare di aver agio sotto minaccia. Tu comunque puoi anche mette via la spada. Siamo marinai pacifici e non abbiamo nulla contro di te. E poi fa sempre comodo avere a bordo un uomo d'arme come te. Saliamo sul ponte di poppa e vuotiamo un bel boccale di birra.»
«Benissimo», rispose prontamente il cimmero, rinfoderando la spada.

Mappa dell'Era Hyboriana

L'Argus era una nave piccola e robusta, una di quelle tipiche imbarcazioni da commercio che fanno servizio nei porti della Zingara, dell'Argos e le coste meridionali, tenendosi vicino alla costa e di rado avventurandosi lontano nel mare aperto. Era alta di poppa, e la prua si alzava con un'elegante curvatura; la carena era larga e si arrotondava armoniosamente verso i dritti di prua e di poppa. Era guidata con il lungo remo poppiero, e la spinta era fornita soprattutto da un'ampia vela di seta a strisce, coadiuvata da una vela triangolare. I remi erano usati per virare nelle cale e nelle baie, e durante i periodi di bonaccia. Ce n'erano dieci per fianco, cinque a prora e cinque a poppa del piccolo ponte di comando. Sotto questo ponte e sotto quello prodiero era stivata la parte più preziosa del carico. Gli uomini dormivano sul ponte o tra le panche dei rematori, proteggendosi durante il maltempo sotto teli da tenda. L'equipaggio era formato da venti uomini ai remi più tre al timone e il capitano.
Così l'Argus si spinse verso meridione, con il tempo sempre al bello. Il sole picchiava di giorno in giorno sempre più forte, e furono stese le tende: teloni di seta a strisce che si intonavano con la vela scintillante e con il luccichio degli intarsi dorati sulla prora e lungo le murate.
Avvistarono la costa dello Shem: lunghe pianure ondulate coronate in lontananza dalle bianche torri della città, cavalieri con la barba nera dai riflessi azzurri e il naso a becco che costeggiavano la spiaggia sui loro destrieri osservando la galea con sospetto. Non fecero scalo: a commerciare con i fieri e sospettosi figli dello Shem c'era ben poco da guadagnare.
E capitan Tito non entrò neppure nella vasta baia il cui il fiume Styx rovescia i suoi flutti smisurati nell'oceano e i massicci castelli tenebrosi di Khemi torreggiano sopra le acque azzurre. Le navi che no non siano invitate non si fermano in quel porto. dove sinistri stregoni intessono spaventosi incantesimi tra il fumo denso dei sacrifici che si innalza in continuazione dagli altari macchiati di sangue sui quali fanciulle nude urlano e dove Set, l'Antico Serpente, si dice contorcesse le spire lucenti tra le schiere dei suoi adoratori. Capitan Tito si tenne ben lontano da quella incantevole baia cristallina, anche quando una bassa imbarcazione con la prua a forma di serpente spuntò da dietro un promontorio su cui sorgeva un castello, e donne nude dalla pelle bruna, con grossi fiori rossi nei capelli, lanciarono richiami ai marinai atteggiandosi in pose provocanti.
Adesso le torri scintillanti non si ergevano più dall'entroterra. Avevano oltrepassato le coste meridionali della Stygia e navigavano lungo le coste del Kush. Il mare e le sue strade erano misteri mai risolti per Conan, la cui terra natia si trovava tra le alte montagne degli altipiani settentrionali. E lui stesso non era privo di interesse per i robusti marinai, che per la maggior parte non avevano mai visto nessuno della sua razza.
Erano tipici marinai argosiani, dalla corporatura bassa e tarchiata. Conan torreggiava in mezzo a loro, e neppure due di essi messi insieme potevano eguagliare la sua forza. Essi erano resistenti e robusti, ma quella di Conan era la resistenza e la vitalità di un lupo; i suoi muscoli erano irrobustiti, i suoi nervi affinati dalla durezza della vita nelle terre più ostili del mondo. Il cimmero era rapido alla risata ma altrettanto rapido e terribile nella collera. Era un buon mangiatore e le bevande forti erano la sua passione e la sua debolezza. Sotto molti aspetti era ingenuo come un bambino, poco avvezzo alle malizie della civiltà, ma intelligente per natura, geloso dei suoi diritti e pericoloso come una tigre affamata. Giovanissimo, la vita militare e i vagabondaggi lo avevano irrobustito, e il suo abbigliamento tradiva i lunghi viaggi in terre diverse. L'elmo ornato di corna era simile a quello usato dai biondi Aesir del Nordhein; l'usbergo r i gambali erano della più delicata fattura kothiana; la fine maglia ad anelli che gli proteggeva le braccia e le gambe era della Nemedia; la lama appesa alla cintura era uno spadone dell'Aquilonia; e lo sgargiante mantello scarlatto non poteva che essere stato tessuto nell'Ophir.
Continuarono a procedere verso meridione e capitan Tito cominciò a cercare i villaggi negri dalle alte palizzate. Ma sulla spiaggia di una baia, cosparsa di neri corpi nudi, trovarono soltanto rovine fumanti. Tito imprecò.
«Avevo fatto buoni affari, qui, a suo tempo. Questa è opera dei pirati.»
«E se li incontriamo?», Conan slaccio il fermo della grande spada.
«La mia non è una nave da guerra. Noi fuggiamo, non combattiamo. Se però arriviamo allo scontro, abbiamo già sconfitto i predoni altre volte, e potremo farlo di muovo; a meno che si tratti della Tigre di Bêlit.»
«Chi è Bêlit?»
«La furia più selvaggia che abbia mai scampato la forca. Se ho ben interpretato i segni, sono stati proprio i suoi macellai a distruggere quel villaggio sulla baia. Possa riuscire a vederla penzolare un giorno da un pennone! E' chiamata la Regina della Costa Nera. E' una donna shemita, che guida scorridori negri. Saccheggiano le navi e hanno mandato all'altro mondo un mucchio di buoni commercianti.»
Da sotto il ponte di poppa Tito tirò fuori corsaletti di cuoio, elmetti, archi e frecce.
«Serviranno a ben poco, se saremo inseguiti», brontolò. «Ma addolora l'anima perdere la vita senza combattere.»
Era appena l'alba quando la vedetta diede l'allarme. Una lunga sagoma funesta scivolava verso tribordo attorno al lungo promontorio di un'isola: una galea snella e affilata, con un ponte sopraelevato che correva dal dritto di prua a poppa. Quaranta remi da ciascun lato la spingevano velocemente sull'acqua, e le murate basse formicolavano di negri nudi che cantavano e battevano le lance sugli scudi ovali. In cima all'albero maestro sventolava un lungo pennone cremisi.
«Bêlit!», gridò Tito, impallidendo. «Presto! Virate di bordo! Dritti nella foce di quel torrente! Se tocchiamo terra prima che ci raggiungano, abbiamo una speranza di salvarci la vita!»
Così, cambiando rotta di colpo, l'Argus si lanciò rapida verso la linea della risacca che si avventava contro la spiaggia frangiata di palme, mentre Tito camminava su e giù incitando i rematori ansanti a centuplicare i loro sforzi. La barba nera del capitano era irta e gli occhi mandavano lampi.
«Dammi un arco», disse Conan. «Non la considero proprio l'arma più adatta a un vero uomo, ma ho imparato a usarla tra gli Hyrkaniani, e sarei stupito se non riuscissi a colpire uno o due dei negri su quel ponte laggiù.»
Ritto a poppa, osservò la nave affilata che avanzava sfiorando appena la superficie dell'acqua, e benché non fosse un marinaio, capì subito che l'Argus non avrebbe mai vinto la corsa. Già le frecce, scoccate dal ponte dei pirati, cadevano in mare sibilando a non più di venti passi dalla poppa.
«Sarà meglio stare attenti», brontolò il cimmero, «altrimenti moriremo tutti con una freccia nella schiena, senza restituire nemmeno un colpo.»
«Piegate la schiena, cani!», ruggì Tito, agitando il pugno. I rematori barbuti grugnirono, muovendo i remi, con i muscoli che guizzavano e risaltavano e il sudore che cominciava a scorrere sulla pelle. Il fasciame della piccola ma robusta galea scricchiolava e gemeva mentre gli uomini la lanciavano alla massima velocità. Il vento era caduto; la vela pendeva afflosciata. Gli scorridori si avvicinavano inesorabili, sempre di più; i fuggiaschi erano ancora un miglio buono dalla costa quando uno dei timonieri si accasciò rantolando sul remo con una lunga freccia che gli trapassava il collo. Tito balzò a prenderne il posto; e Conan, piantandosi a gambe divaricate sul ponte di poppa, sollevò l'arco. Adesso poteva vedere chiaramente i particolari della nave pirata. I rematori erano protetti da una fila di schermi alzati lungo i fianchi, ma i guerrieri che danzavano sullo stretto ponte erano in piena vista. Erano dipinti e ornati di piume, in maggior parte nudi, e brandivano lunghe lance e scudi maculati.
Sull'alta piattaforma di prua c'era una figura slanciata, dalla pelle bianca che scintillava in un abbagliante contrasto con le lucide pelli color ebano. Bêlit, senza dubbio. Conan tese la freccia all'altezza dell'orecchio...ma qualche capriccio o qualche scrupolo gli deviò la mano e mandò il dardo a conficcarsi nel corpo di un lanciere alto e piumato a fianco della regina.
A poco a poco la galea pirata si avvicinava all'altra imbarcazione. Una pioggia di dardi si abbatté sull'Argus, e gli uomini lanciarono grida di dolore. Tutti e tre i timonieri giacevano sul ponte trafitti da frecce, e Tito reggeva da solo il lungo remo direzionale, ansimando sanguinose maledizioni, con le gambe divaricate che erano nodi di muscoli in tensione. Poi con un singulto cadde sulla tolda, con il cuore trafitto da un lungo dardo vibrante. L'Argus perse velocità e sbandò fra la schiuma. Il caos scoppio tra gli uomini, e Conan prese il comando alla sua caratteristica maniera.
«Forza uomini!», ruggì, lasciando andare con uno schiocco maligno la corda dell'arco. «Afferrate le armi e restituite a quei cani un paio di colpi, prima che ci taglino la gola! E' inutile piegare ancora la schiena: ci abborderanno prima ancora di percorrere cinquanta passi!»
In preda alla disperazione, i marinai abbandonarono i remi e afferrarono le armi: una mossa intrepida ma inutile. Ebbero ancora il tempo di scagliare una volata di frecce prima che i pirati fossero loro addosso. Priva di timoniere, l'Argus deviò di fianco, e l'appuntita prua d'acciaio della nave pirata le speronò la fiancata. I grappini si agganciarono alle murate. Dall'alto i pirati negri scagliarono un nugolo di frecce che lacerò i corsetti imbottiti dei marinai ormai condannati, poi saltarono giù con le lance in pugno per completare il massacro. Sul ponte della nave pirata giaceva una mezza dozzina di cadaveri: la prova dell'abilità di Conan nel tiro con l'arco.
Il combattimento sull'Argus fu breve e sanguinoso. I tozzi marinai, impari avversari per gli alti barbari furono uccisi fino all'ultimo uomo. Ma da un'altra parte la battaglia aveva preso una piega diversa. Conan, sull'alta poppa slanciata, si trovava allo stesso livello del ponte pirata. Quando la prua d'acciaio aveva squarciato in due l'Argus, il cimmero aveva piantato i piedi sul ponte per resistere all'urto, e aveva abbandonato l'arco. Un alto corsaro, superando con un salto la murata, incontrò a mezz'aria lo spadone del cimmero, e ne fu tagliato in due all'altezza della cintola. cosicché il torace cadde da una parte le gambe dall'altra. Poi, con un'esplosione di furia che lasciò un cumulo id cadaveri maciullati lungo i parapetti della nave, Conan salì sulla murata e balzò sul ponte della Tigre.

In un istante fu al centro di un urano di lance e mazze che cercavano di colpirlo. Ma lui si muoveva in un accecante turbinio d'acciaio. Le lance gli ammaccavano l'armatura o scivolavano di lato, mentre la sua spada intonava un canto di morte. In lui si era risvegliata la pazzia guerriera della sua stirpe, e mentre una nebbia rossastra di furia irragionevole gli velava la vista, spacco crani, schiantò toraci, tranciò arti, strappo via viscere, tappezzò il ponte di una sinistra messe di cervello e sangue.
Invulnerabile nella sua armatura, la schiena contro l'albero maestro, ammucchiava ai suoi piedi cadaveri straziati, finché i nemici si ritirarono ansimando di rabbia e di timore. Poi, mentre i negri sollevavano le lance per scagliarle, e Conan si preparava a balzare e morire in mezzo a loro, un grido acuto bloccò le braccia alzate. Tutti rimasero fermi come statue, i negri giganteschi nella posizione per il lancio, e il guerriero in maglia d'acciaio con in pugno la spada che grondava sangue.


Bêlit balzò davanti ai negri, facendo abbassare le lance. Si voltò verso Conan, gonfiando il petto, gli occhi lampeggianti. Dita ardenti di meraviglia si impadronirono del cuore del cimmero. La donna era snella ma ben tornita come una Dea: agile e formosa nello stesso tempo. Indossava solamente un'ampia fascia di seta. Le membra bianche come l'avorio e i globi eburnei dei seni procurarono un'accelerazione di feroce passione nelle pulsazioni del cimmero, persino nella tensione furibonda della battaglia. Gli splendidi capelli neri, scuri come una motte stygiana, le cadevano in ciocche ondulate e lucenti lungo la schiena. I suoi occhi scuri bruciarono il cimmero.
Era indomita come il vento del deserto, agile e pericolosa come una pantera. Gli venne vicino, incurante della spada gocciolante del sangue dei suoi guerrieri. Lo sfiorò con la gamba agile, tanto gli venne vicino. Le sue labbra rosse si schiusero mentre fissava l'uomo dritto negli occhi foschi e minacciosi.
«Chi sei?», domandò la donna. «Per Ishtar, non ho mai visto uno come te, sebbene abbia battuto il mare dalle coste della Zingara fino ai più lontani fuochi del meridione. Da dove vieni?»
«Dall'Argos», rispose Conan brusco, attento ai tradimenti. Se la sua mano sottile si fosse avvicinata all'impugnatura tempestata di gemme del pugnale che portava alla cintura, gli sarebbe bastato un colpetto a mano aperta per farla stramazzare sul ponte priva di sensi. Tuttavia non sentiva in cuor suo alcun pericolo; aveva stretto troppe donne, civili e barbare, fra le braccia dai muscoli d'acciaio, per non riconoscere la luce che ardeva negli occhi di lei.
«Non sei uno di quei rammolliti Hyboriani!», esclamò la donna. «Sei feroce e spietato come un lupo grigio. I tuoi occhi non sono mai stati abbagliati dalle luci della città; i tuoi muscoli non sono mai stati indeboliti dalla vita tra pareti di marmo.»
«Sono Conan, un cimmero», rispose lui.
Per i popoli delle regioni tropicali, il settentrione era un territorio semimitico, popolato da feroci giganti degli occhi azzurri che di tanto in tanto scendevano dalle loro fortezze di ghiaccio con torce e spade. Le loro scorrerie non gli avevano mai portato tanto a meridione de arrivare fino allo Shem, e quella ragazza shemita non faceva alcuna distinzione tra Aesir, Vanir o Cimmeri. Con l'istinto infallibile delle donne, sapeva di aver trovato il suo uomo, e che fosse di un'altra razza non aveva importanza, se non per il fatto che gli dava un tocco di fascino di terre lontane.
«E io sono Bêlit», esclamò la donna, con lo stesso tono di una che dicesse: «Io sono la regina!»
«Guardami, Conan!» Spalancò le braccia. «Io sono Bêlit, Regina della Costa Nera. Tu sei freddo come le montagne innevate che ti hanno generato, tigre del settentrione! Stringimi e distruggimi con la violenza del tuo amore! Vieni con me fino ai confini della terra e ai confini del mare! Io sono regina grazie al fuoco, al ferro e al massacro... sii tu il mio re!»
Conan passò in rassegna le schiere di uomini incrostati di sangue rappreso, cercando espressioni di collera o di gelosia. Non ne trovò. La furia era sparita da quei volti d'ebano. Capì che per quegli uomini Bêlit era più di una donna: era un Dea da non discutere. Lanciò un'occhiata all'Argus che dondolava nell'acqua arrossata, sbandando paurosamente, con i ponti coperti di morti, trattenuta dai grappini di ferro. Lanciò un'occhiata alla spiaggia frangiata d'azzurro, alle lontane nebbie verdi dell'oceano, alla figura tesa e vibrante che gli stava davanti: e la sua anima barbara si agitò nel petto. Visitare quegli scintillanti reami azzurri con la giovane tigre dalla pelle bianca... per amare, ridere, vagabondare, saccheggiare...
«Verrò con te», disse brusco, scuotendo gocce di sangue dalla spada.
«Tu, N'Yaga!» La voce della donna schioccò come la corda di un arco. «Prendi le erbe e medica le ferite del tuo padrone! Voialtri, portate a bordo il bottino, e tagliamo i grappini.»
Conan si sedette con la schiena contro la murata di poppa, mentre il vecchio Sciamano gli curava le ferite alle mani e alle gambe, e il carico della sfortunata Argus veniva rapidamente trasferito sulla Tigre e ammassato in piccole cabine sotto il ponte. I corpi dell'equipaggio e dei pirati caduti furono buttati in mare agli squali, mentre i negri feriti furono deposti sulla tolda per essere curati. Poi furono tagliati i grappini di ferro; e mentre l'Argus affondava silenziosamente nelle acque macchiate di sangue, la Tigre si mosse silenziosa verso Meridione al ritmico tonfo dei remi.
Appena furono al largo, sulle trasparenti profondità azzurrine, Bêlit salì a poppa. I suoi occhi brillavano come quelli di una pantera nel buio, mentre si toglieva di dosso gli ornamenti, i sandali e l'ampia fascia di seta e li gettava ai piedi di Conan. Si alzò in punta di piedi tendendo le braccia verso l'alto, linea tremula di candido nudo,e gridò all'orda di disperati; «Lupi del mare azzurro, guardate la danza...la danza nuziale di Bêlit, i cui padri erano i re di Asgalun!»



E danzò, come il vortice di un turbine del deserto, come le lingue d'una fiamma inestinguibile, come l'impulso della creazione e l'impulso della morte.

I suoi piedi pallidi sfioravano il ponte macchiato di sangue, e uomini morenti dimenticarono la morte mentre la guardavano impietriti.
Poi, quando le stelle bianche scintillarono contro l'azzurro velluto del crepuscolo, rendendo il suo corpo roteante un palpito di fuoco eburneo, con un grido selvaggio si gettò ai piedi di Conan, e il flusso cieco del desiderio del cimmero spazzò via ogni altra cosa quando il suo corpo si schiacciò ansimante contro le piastre nere del suo usbergo.


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