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In quella morta rocca di pietre cadentiI suoi occhi furon preda di quell'empio splendore:E una strana pazzia mi prese alla golaCome se fra noi ci fosse un rivale d'amore.Il canto di Bêlit
La Tigre
percorreva il mare e i villaggi negri rabbrividivano. I tam-tam
battevano nella notte, narrando la storia che la furia del mare aveva
trovato un compagno, un uomo di ferro la cui collera era pari a quella
di un leone ferito. E i sopravvissuti delle navi stygiane massacrate
maledicevano Bêlit e l'uomo bianco dai feroci occhi azzurri; così i
principi stygiani ricordarono a lungo quell'uomo, e il ricordo divenne
un albero d'amarezza che produsse frutti sanguinosi negli anni a venire.
Ma senza meta senza meta come un vento vagabondo, la Tigre
incrociò le coste meridionali fin quando non si ancorò alla foce di un
largo fiume cupo, le cui rive erano muraglie di mistero ammassate di
giungla.
«Questo
è il fiume Zarkheba, e vuol dire Morte», disse Bêlit. «Le sue acque
sono veleno. Vedi come scorrono scure e fangose? Solo rettili pericolosi
ci vivono. Il popolo negro le sfugge. Una volta, una galea stygiana che
cercava di sottrarsi a me fuggi per il fiume e svanì. Io gettai
l'ancora in questo stesso posto,e qualche giorno dopo la galea venne
fluttuando lungo le acque scure, e il suo ponte era macchiato di sangue,
e spoglio. Un unico uomo si trovava a bordo, ma era impazzito e morì
vaneggiando. Il carico era intatto, ma l'equipaggio era svanito nel
silenzio e nel mistero.
Amore mio, io penso che ci sia una città
da qualche parte lungo il fiume. Ho ascoltato storie di torri
gigantesche e mura intraviste da lontano, da marinai che osarono
risalire per un tratto il fiume. Noi non temiamo nulla: Conan, andiamo a
saccheggiare quella città! »
Conan si disse d'accordo. In genere
condivideva sempre i piani di lei. Era di Bêlit la mente che studiava le
incursioni, e di Conan il braccio che metteva in atto le sue idee. Al
cimmero importava poco dove si dirigevano e chi combattevano. almeno
finché di dirigevano da qualche parte a combattere qualcuno. Quella vita
gli piaceva.
Battaglie e scorrerie avevano ridotto il numero
dell'equipaggio; rimaneva solo circa ottanta lancieri, appena
sufficienti a manovrare la lunga galea. Ma Bêlit non voleva perdere
tempo nella lunga crociera verso il regni insulari del Meridione, dove
reclutava i suoi bucanieri. Era infiammata dalla bramosia
dell'avventura: così la Tigre scivolò nella foce del fiume prendendo di petto l'ampia corrente, mentre i marinai spingevano forte sui remi.
Superarono
la curva misteriosa che toglieva la visuale del mare, e il tramonto li
colse mentre avanzavano con difficoltà contro la lenta corrente,
evitando banchi di sabbia sui quali strani rettili si muovevano
sinuosamente. Non videro nemmeno un coccodrillo, e neanche animali a
quattro zampe o uccelli che scendessero alla riva a dissetarsi.
Avanzarono nell'oscurità che precede il sorgere della luna, fra le rive
che erano solide palizzate di tenebra, dalle quali provenivano rumori
misteriosi, passi furtivi e il bagliore di occhi sinistri.
E una
volta una voce inumana si alzò in un'orribile parodia... il verso di una
scimmia, disse Bêlit, aggiungendo che le anime di uomini malvagi erano
imprigionate in quegli animali dalla forma umana, come punizione per i
crimini commessi. Ma Conan era dubbioso, perché una volta, in una gabbia
dalle sbarre dorate, in una città dell'Hyrkania, aveva visto un
insondabile animale dagli occhi tristi, che, a quanto la gente gli aveva
detto, era una scimmia, e in esso non c'era nulla della malvagità
demoniaca che aveva vibrato nella risata urlante, echeggiata nella
giungla tenebrosa.
Poi sorse la luna, una macchia di sangue venata
di ebano, e la giungla si svegliò in un orribile cacofonia a darle il
benvenuto. Ruggiti, ululati e grida che misero il tremito addosso ai
guerrieri negri: ma tutti quei rumori, notò Conan, provenivano
dall'interno della giungla, come se gli animali sfuggissero, non meno
che gli uomini, le acque dello Zarkheba.
Sopra i tenebrosi viluppi
degli alberi e le fronde ondeggianti, la luna inargentò il fiume e la
scia della nave divenne un'increspatura scintillante di bollicine
fosforescenti che si allargava come un'ampia strada di gemme splendide. I
remi si immergevano nell'acqua luminosa e ne uscivano coperti di gelido
argento. Le piume delle acconciature dei guerrieri si agitavano al
vento, e le gemme sull'elsa delle spade e sulle armature risplendevano
gelide.
La fredda luce traeva fuochi glaciali dalle gemme che
Bêlit portava nei capelli a crocchia, mentre lei si stirava su una pelle
di leopardo gettata sulla tolda. Poggiata su un gomito, con il mento
sorretto dalla mano sottile, alzò lo sguardo fissando in volto Conan,
che le riposava accanto, con la chioma nera ondeggiante nella debole
brezza. Gli occhi di Bêlit era gemme scure ardenti alla luce lunare.
«Mistero e terrore ci circondano, Conan, e noi scivoliamo nel reame dell'orrore e della morte», disse. «Hai paura?»
Una scrollata delle spalle rivestite di maglia fu l'unica risposta.
«Nemmeno
io ho paura», continuò lei pensierosa. «Non ho mai avuto paura. Ho
guardato le zanne snudate della Morte troppo spesso. Conan tu hai paura
degli Dèi?»
«Non vorrei camminare nella loro ombra», rispose il
cimmero lentamente. «Alcuni Dèi sono forti nell'offendere, altri
nell'aiutare; almeno così dicono i loro sacerdoti. Mitra degli Hyboriani
dev'essere un Dio potente, perché la sua gente ha costruito città per
tutto il mondo. Ma anche gli Hyboriani temono Set. E Bel, Dio dei ladri,
è un buon Dio. Quando facevo il ladro nella Zamora ho avuto modo di
saperlo.»
«E i tuoi Dèi? Non ti ho mai sentito invocarli.»
«Il
loro capo è Crom. Abita in una grande montagna. Ma perché invocarlo?
Ben poco gli importa se gli uomini vivono o muoiono. Meglio starsene
zitti, che richiamare la sua attenzione; manderà sciagure, non fortuna!
E' spietato e senza amore, ma alla nascita soffia nell'anima del uomo il
potere di lottare e uccidere. Cos'altro dovrebbero chiedere gli uomini
agli Dèi?»
«Ma i mondi oltre il Fiume della Morte?», insistete lei.
«Non
c'è speranza né qui né dopo, nel culto del mio popolo», rispose Conan.
«In questo mondo gli uomini lottano e soffrono invano, trovando piacere
silo nella lucente follia della battaglia; morendo le loro anime entrano
in un reame grigio e nebbioso di nuvole e venti gelidi, per vagare
tristemente nell'eternità»
Bêlit rabbrividì. «La vita, per quanto brutta sia, è sempre meglio di un simile destino. Non credi, Conan?»
Il
barbaro si strinse nelle spalle. «Ho conosciuto molti Dèi. Colui che li
nega è cieco come colui che se ne fida troppo. Io non cerco oltre la
morte. Può esserci la tenebra, come affermano gli scettici nemediani, o
il reame di Crom, fatto di ghiaccio e nubi, o le pianure innevate e le
sale a cupola del Valhalla dei nordici. Non lo so, e non me ne importa. Io
voglio vivere appieno, finché vivo. Mi basta conoscere il ricco sapore
della carne rossa e del vino che mi punge il palato, il caldo abbraccio
di braccia bianche, la folle esultanza della battaglia, quando le spade
azzurrine guizzano e s'arrossano, e io sono contento. Che sacerdoti,
maestri e filosofi meditino pure sulla realtà e sull'illusione. Io so
questo: se la vita è illusione, allora anch'io sono illusione, ed
essendolo, l'illusione per me è reale. Io vivo, brucio di vita, amo,
uccido e sono contento»
«Ma gli Dèi sono reali», disse lei,
seguendo la propria corrente di pensieri. «E su tutti ci sono gli Dèi
degli Shemiti... Ishtar, Ashtoreth, Derketo e Adonis. Bel anche lui è
shemita, perché nacque nell'antica Shumir, tanto tempo fa, e venne al
mondo ridendo, con la barba riccia e saggi occhi da spiritello, per
rubare le gemme dei re dei tempi andati.
C'è vita oltre la morte,
lo so, e so anche questo, Conan di Cimmeria.» Si alzò flessuosa sui
ginocchi cingendolo in un abbraccio felino. «So che il mio amore è
più forte di ogni morte! Sono stata nelle tue braccia, ansimando per la
violenza del nostro amore; tu mi hai stretto con la ferocia dei tuoi
baci ardenti. Il mio cuore è saldato al tuo, la mia anima è parte della
tua! Se io fossi nell'immobilità della morte, e tu stessi lottando per
la vita, tornerei indietro dall'abisso per aiutarti, sì, sia che il mio
spirito navigasse sotto vele purpuree nel mare cristallino del paradiso,
sia che la mia anima si contorcesse nelle fiamme fuse dell'inferno!
Sono tua, e tutti gli Dèi e tutte le loro eternità non ci separeranno!»
La
vedetta di prua mandò un grido. Conan spinse Bêlit di lato e balzò in
piedi, con la spada che mandava un lungo scintillio argenteo alla luce
lunare e i capelli che gli si rizzavano sulla nuca per quel che vedeva.
Il guerriero negro penzolava al di sopra della tolda, sostenuto da
quello che pareva uno scuro tronco flessuoso che si inarcava sopra la
murata. Conan si rese conto che era un serpente gigantesco, che era
strisciato sulla fiancata della prua e aveva afferrato lo sventurato
guerriero nelle fauci. Le scaglie gocciolanti brillavano infette alla
luna, mentre si inarcava alto al di sopra della tolda, e l'uomo gridava e
si contorceva come un topo tra le zanne di un pitone. Conan si
precipitò a prua, e con un fendente della grande spada troncò quasi in
due il corpo gigantesco, più basso di quello d'un uomo. Il sangue
inzuppò le vele mentre il mostro morente ondeggiava allontanandosi,
sempre tenendo stretta la vittima e sprofondava nel fiume, spira dopo
spira, frustando l'acqua fino a farla diventare schiuma insanguinata,
nella quale rettile e uomo svanirono insieme.
Da quel momento
Conan si mise di vedetta di persona, ma nessun altro orrore venne
strisciando dagli abissi tenebrosi; e quando l'alba imbiancò la giungla,
vide le nere zanne di torri che emergevano fra gli alberi. Chiamò
Bêlit, che aveva dormito sulla tolda, avvolta nel suo mantello
scarlatto: e lei balzò al suo fianco, con gli occhi che mandavano
fiamme. Aveva le labbra dischiuse per ordinare ai guerrieri di prendere
archi e lance; poi i suoi incantevoli occhi si spalancarono.
Era
solo lo spettro di una città, quella che videro quando oltrepassarono un
promontorio coperto di giungla e si avvicinarono alla curva della
spiaggia. Erbacce putride crescevano fra pietre di moli in disfacimento e
fra pavimentazioni sconnesse che un tempo erano state strade, ampie
piazze e corti spaziose. Da tutti i lati, eccettuato quello del fiume,
la giungla si era intrufolata, mascherando con un verde malsano colonne
cadute e tumuli in rovina. Qua è la torri pendenti si alzavano ubriache
contro il cielo mattutino e colonne spezzate spuntavano fra mura in
rovina. Nello spazio centrale, una piramide di marmo sorreggeva una
sottile colonna, in cima alla quale sedeva, o era acquattata, una cosa
che il cimmero ritenne essere una statua finché i suoi occhi acuti non
vi scorsero la vita.
«E' un uccello gigantesco», disse uno dei guerrieri, fermo a prua.
«E' un pipistrello mostruoso», insistette un altro.
«E' una scimmia», disse Bêlit.
Proprio in quel momento l'essere spalancò due ali enormi e s'alzò in volo sulla giungla.
«Una
scimmia alata», disse il vecchio N'Yaga, a disagio. «Avremmo fatto
meglio a tagliarci la gola da soli, anziché venire in questo posto.»
Bêlit
lo dileggiò per la sua superstizione, e ordinò che la galea accostasse a
riva e fosse legata la molo in rovina. Fu la prima a balzare a terra,
seguita da presso da Conan, poi da tutti i pirati dalla pelle d'ebano,
con le piume delle acconciature ondeggianti al vento, le lance pronte,
gli occhi dubbiosamente attenti alla giungla circostante.
Su tutto
regnava un silenzio sinistro come un serpe addormentato. Bêlit si fermò
tra le rovine e la vibrante vitalità della sua snella figura contrastò
stranamente con la desolazione e il disfacimento che la circondavano. Il
sole fiammeggiò in alto lentamente, sinistramente, al d sopra della
giungla, inondando le torri di un oro spento che lasciò ombre in agguato
fra i muri pericolanti. Bêlit indicò una sottile torre rotonda
barcollante sulla base malferma. Un'ampia pavimentazione di lastre
inclinate e inframmezzate di erbacce, fiancheggiata da colonne cadute,
conduceva alla torre, e di fronte ad essa c'era un massiccio altare di
pietra. Bêlit percorse rapidamente l'antica rampa e si fermò davanti
all'altare.
«Questo era il tempio degli antichi», disse. «Guarda,
si vedono ancora i canaletti per il sangue ai lati dell'altare, e le
piogge di diecimila anni non hanno ancora cancellato le macchie scure.
Le pareti sono crollate, ma questo blocco di pietra sfida il tempo e gli
elementi.»
«Ma chi erano questi antichi?», chiese Conan.
Bêlit
allargò le mani sottili.«Nemmeno nelle leggende questa città è
menzionata. Ma osserva le tacche a maniglia, alle due estremità
dell'altare! I sacerdoti spesso nascondono i loro tesori sotto gli
altari. Voi quattro cercate di sollevarlo.»
Fece un passo indietro
per fare spazio agli uomini, e diede un'occhiata alla torre che
incombeva sghemba su di loro. Tre fra i negri più robusti avevano
afferrato le tacche intagliate nella roccia, curiosamente inadatte a
mani umane, quando Bêlit balzò indietro con un grido acuto. Gli uomini
si immobilizzarono, e Conan, che si era curvato per aiutarli, roteò su
se stesso con un'imprecazione stupita.
«Un serpente, nell'erba», disse Bêlit, indietreggiando. «Uccidetelo, e datevi da fare con il blocco di pietra.»
Conan
si avvicinò rapidamente a lei mentre un altro prendeva il suo posto.
Scrutò impaziente l'erba, cercando il rettile, mentre i negri
giganteschi allargavano le gambe e grugnivano, facendo forza con i
muscoli enormi tesi per lo sforzo sotto la pelle d'ebano. L'altare non
si alzò dal terreno, ma all'improvviso rotolò su un fianco. E nello
stesso tempo ci fu un rombo in alto, e la torre crollò con uno schianto,
ricoprendo di pietre rotolanti i quattro negri.
Un grido di
orrore si alzò dagli astanti. Le sottili dita di Bêlit si conficcarono
nel braccio muscoloso di Conan. «Non c'era nessun serpente», sussurrò.
«Era solo un'astuzia per farti venire via da lì. Avevo paura: gli
antichi custodivano bene i loro tesori. Togliamo le pietre.»
Con
grande fatica eseguirono il compito ed estrassero i corpi maciullati
delle quattro vittime. E sotto di esse, macchiata del loro sangue,
i pirati trovarono una cripta intagliata nella roccia viva. L'altare,
incernierato stranamente con pioli di pietra e alloggiamenti, ne era
stato il coperchio. E alla prima occhiata la cripta parve brillare di
fuoco liquido, afferrando la luce del mattino in una miriade di
sfaccettature rilucenti. Una ricchezza superiore ad ogni sogno giaceva
davanti agli occhi dei pirati sbigottiti: diamanti, rubini, granati,
zaffiri, turchesi, seleniti, opali, smeraldi, ametiste, gemme
sconosciute che brillavano come occhi di donne malvagie. La cripta era
piena fino all'orlo di gemme luccicanti che il sole del mattino
trasformava in fuoco vivo.
Con un'esclamazione, Bêlit cadde in
ginocchio fra i calcinacci macchiati di sangue, ai bordi della cripta, e
tuffò le braccia eburnee, fino alle spalle, in quel lago di splendore.
Le ritrasse stringendo qualcosa che che le strappò un altro grido: una
lunga collana di pietre scarlatte che parevano grumi di sangue rappreso,
fissati su uno spesso filo d'oro. Nel loro riflesso, la luce dorata del
sole si trasformò in una nebbia sanguigna.
Gli occhi di Bêlit
erano quelli di una donna ipnotizzata. L'anima shemita prova una gioiosa
ubriachezza nelle ricchezze e nello splendore materiale, e la vista di
quel tesoro avrebbe scosso l'anima anche ad un imperatore dello Shushan.
«Raccogliete le gemme, cani!», gridò con voce resa acuta dall'emozione.
«Guardate!» Un muscolo braccio nero si puntò verso la Tigre
e Bêlit si girò di scatto, snudando i denti, come se si aspettasse di
vedere un corsaro rivale precipitarsi a privarla del bottino. Ma dai
boccaporti della nave emerse solo una sagoma scura, che si innalzò nella
giungla.
«La scimmia demoniaca ha ispezionato la nave», mormorarono i negri a disagio.
«Che
importa?», esclamò Bêlit con un'imprecazione, rimettendo a posto un
ricciolo ribelle con un gesto impaziente. «Fate una portantina con lance
e mantelli per trasportare le gemme...dove diavolo vai?»
«A dare
un'occhiata alla galea», brontolò Conan. «Quella specie di pipistrello
potrebbe aver aperto uno squarcio nel fondo, per quanto ne sappiamo.»
Percorse
velocemente il molo in rovina e balzò a bordo. Un rapido esame sotto la
tolda e lanciò una violenta imprecazione, con un'occhiata rannuvolata
nella direzione in cui era svanito l'essere a forma di pipistrello.
Tornò in fretta da Bêlit che sovrintendeva al saccheggio della cripta.
La donna si era messa al collo la collana, e sul suo petto nudo i grumi
rossastri scintillavano sinistramente. Un gigantesco negro era immerso
fino alla cintola nella cripta traboccante di gemme e raccoglieva grandi
manate di pietre preziose da passare ad altre mani ansiose, in attesa
più in alto. Fili di iridescenza gli pendevano dalle dita brune; goce di
fuoco rosso cadevano dalle sue mani e si ammucchiavano con lo splendore
argenteo e i colori dell'arcobaleno. Era come se un titano negro stesse
a gambe spalancate nei lucenti abissi dell'inferno, con le mani alzate
piene di stelle.
«Il Demone volante ha squarciato i barili
d'acqua», disse Conan. «Se no fossimo stati tanto abbagliati da queste
pietre, avremmo sentito il fracasso. Siamo stati pazzi a non lasciare un
uomo di guardia. Non possiamo bere l'acqua di questo fiume. Prenderò
venti uomini e andrò a cercare acqua fresca nella giungla.»
Bêlit
lo fissò disattente, e nei suoi occhi c'era lo sguardo vuoto della sua
strana passione, mentre le sue dita giocherellavano con le gemme che le
poggiavano sul seno.
«Benissimo», disse in tono assente, quasi senza badargli. «Io porterò il bottino a bordo.»
La
giungla si richiuse rapida su di loro, cambiando la luce da dorata a
grigia. Dai rami verdi arcuati, i rampicanti pendevano come pitoni. I
guerrieri si disposero in fila indiana strisciando attraverso il
crepuscolo primordiale come fantasmi neri dietro uno spettro bianco.
Il
sottobosco non era così denso come Conan si era aspettato. Il suolo era
spugnoso, ma non melmoso. Lontano dal fiume, saliva gradualmente. Si
tuffarono sempre di più nelle verdi profondità ondeggianti, e non c'era
ancora segno d'acqua, né corrente né stagnante. Conan si fermò
all'improvviso e i suoi guerrieri si immobilizzarono come statue di
basalto. Nel silenzio teso che seguì, il cimmero scosse il capo
irritato.
«Andate avanti», disse al suo sottocapo N'Gora. «Andate
dritto finché non mi vedrete più, poi fermatevi ed aspettatemi. Credo
che siamo inseguiti. Ho sentito qualcosa.»
I negri mossero i piedi
a disagio, ma fecero come era stato loro ordinato. Mentre continuavano
la marcia, Conan si nascose rapido dietro un grande albero, sorvegliando
il sentiero che avevano percorso. Non successe nulla; il debole suono
dei guerrieri in marcia svanì in lontananza. Conan si accorse
all'improvviso che l'aria era impregnata di un profumo esotico e alieno.
Qualcosa gli sfiorò gentilmente la tempia. Si girò di scatto. Da un
cespuglio di arbusti dalle foglie di forma curiosa, grandi fiori neri
annuivano verso di lui. Uno di essi l'aveva toccato. Sembravano
invitarlo, inarcare i loro steli pieghevoli nella sua direzione. Si
muovevano e stormivano, anche se non soffiava un alito di vento.
Indietreggiò,
riconoscendo il Loto Nero, il cui succo era morte e il cui profumo
provocava una sonnolenza infestata da sogni. Ma già sentiva una sottile
letargia impadronirsi di lui. Cercò di sollevare la spada per troncare
quegli steli serpentini, ma il braccio gli pendeva inerte al fianco.
Aprì la bocca per chiamare i guerrieri, ma ne uscì solo un debole
mormorio. E subito dopo, con paurosa sveltezza, la giungla ondeggiò e si
sfocò davanti ai suoi occhi; non udì le grida che scoppiarono
terrificanti, poco lontano, mentre i ginocchi gli mancavano e cadeva al
suolo. Suol suo corpo inerte i grandi fiori neri annuivano nell'aria
immota.