domenica 29 agosto 2021

A che serve studiare?



Caro Augias, ricordo ancora la domanda che ci fece il professore di Filosofia il primo giorno di liceo: «A che serve studiare? Chi sa rispondere?». 

Qualcuno osò rispostine educate («a crescere bene…», «a diventare brave persone…»). 

Niente, scuoteva la testa.

Finché disse: «Ad evadere dal carcere». 

Ci guardammo stupiti. «L’ignoranza è un carcere – aggiunse –. Perché là dentro non capisci e non sai che fare.

In questi cinque anni dobbiamo organizzare la più grande evasione del secolo.

Non sarà facile, vi vogliono stupidi ma se scavalcate il muro dell’ignoranza poi capirete senza dover chiedere aiuto.

E sarà difficile ingannarvi. Chi ci sta?».

Mi è tornato in mente quell’episodio indelebile leggendo che solo un ragazzo su venti capisce un testo.

E penso agli altri 19, che faticano ad “evadere” e rischiano l’ergastolo dell’ignoranza.

Uno Stato democratico deve salvarli perché è giusto.

E perché il rischio poi è immenso: le menti deboli chiedono l’uomo forte.
Massimo Marnetto


Risposta di Augias:

L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo è lui il padrone», era il titolo di una commedia di Dario Fo-Franca Rame (1969); l’idea gramsciana che dovere di un partito di sinistra fosse l’elevazione delle masse era ancora forte – di fronte al deserto culturale della parte opposta. L’ultima volta in cui l’ho sentita enunciare a livello politico fu col primo governo Prodi che dichiarò di voler mettere la scuola in cima alle priorità.
Nel discorso programmatico del primo governo Conte le parole scuola e cultura non c’erano. Nel Conte due è invece comparso un breve accenno. La verità è che un accenno non serve di fronte alla magnitudine del disastro. Se i dati Ocse-Pisa rivelano che solo un adolescente su venti riesce a decifrare un testo di media complessità, vuol dire che la regressione è galoppante, che leggere su uno strumentino elettronico non serve a niente perché con una comunicazione scheletrica e ripetitiva s’arriva a trasmettere un appuntamento o al massimo un’effusione sentimentale ridotta a «Tvb» (Ti voglio bene). Leggere e scrivere sono un’altra cosa.
Qualche giorno fa ho partecipato ad un corso per insegnanti organizzato da “Italiadecide” (Associazione di ricerca per la qualità delle politiche pubbliche). Una trentina di insegnanti, per la maggior parte donne, riunite a discutere di cooperazione e apprendimento alla luce dei princìpi costituzionali.
Sono rimasto sorpreso dalla qualità e dal tenore degli interventi, dall’evidente passione nell’arduo compito di insegnare a generazioni di giovani distratti (attratti) da ben altro.
A un certo punto una di loro ha detto: «Se offri una visione, il ragazzo ti segue». M’è parsa una frase chiave; «offrire una visione» significa non limitarsi a trasmettere una data, un nome, la località d’una battaglia o d’un trattato, significa completare un fatto, una pagina di testo, una strofa di poesia, una formula chimica, una scoperta della biologia accompagnandola col percorso, il significato, il contesto, il significato della cosa in esame. Poiché la politica è quello che, sulle spalle di insegnanti di questo livello grava l’intero peso di colmare il vuoto rivelato dai drammatici indici Ocse-Pisa.

Da la Repubblica del 6/12/2019

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